Figli, vedove e sopravvissuti. Dieci anni senza eroi di Nassirya

La Patria è la terra dove gli uomini smettono di essere gente per diventare popolo. Un concetto che il sacrificio dei nostri ragazzi ha restituito alla sua nobiltà. Ecco le loro storie

Figli, vedove e sopravvissuti. Dieci anni senza eroi di Nassirya

Oggi pochi ricordano che - nei mesi successivi alla strage - nei cortei di varia protesta, i più antitutto di tutti gridavano: «Dieci, cento, mille Nassirya». Ovvero inneggiavano alle stragi di soldati italiani in missioni all'estero, e volevano non 10, ma 100, 1000, 10.000 militari assassinati in caserma con una bomba. Sembrerà impossibile, ai più giovani, che si arrivasse a tanto per odio verso il «nemico americano» e in favore del popolo iracheno, di cui non importava niente a nessuno finché era sottoposto alla feroce dittatura di Saddam Hussein. Eppure quella frase comparve, con graffiti e scritte, anche sui muri di tutta Italia.

Credo però che, in realtà, chi gridava «Dieci, cento, mille Nassirya!» non si augurasse davvero altre carneficine di nostri soldati, che ci sono state, né che provasse davvero piacere per quella appena avvenuta. È vero, per loro la nostra non era una «missione di pace» (espressione invero goffa e sbagliata), eravamo i lacchè degli americani, pronti a combattere una guerra sbagliata e a opprimere un popolo per rubargli il petrolio. Ma tutti, anche i più stolidi, sapevano che quei soldati non andavano in missione per spirito di avventura, e tantomeno per un bieco disegno imperialista e guerrafondaio, bensì per mandare qualche soldo in più a casa.

E credo dunque che «Dieci, cento, mille Nassirya!» fosse scagliato non contro i soldati, quelli vivi e quelli morti, ma contro il concetto di patria, contro un sentimento nazionale che rinasceva in quei giorni. Era un grido contro noi vivi, che angosciandoci per i morti, il loro lavoro, le loro famiglie, i nostri doveri internazionali, riscoprivamo il concetto di patria.

Quella parola, «patria» faceva scendere i lacrimoni ai nostri bisnonni ottocenteschi, figli del clima risorgimentale e padri di quei soldati - non tutti, certo, ma tanti - che nella Grande Guerra morivano per il concetto di patria. Un concetto, un sentimento, un ideale che poi il fascismo esasperò fino a metterlo prima della famiglia, di Dio e di se stessi. «La Patria è la più grande, la più umana, la più pura delle realtà!», disse Mussolini il 4 novembre del 1925, e di simili citazioni se ne potrebbero inanellare centinaia.

Gran parte degli italiani ci credette, fino a che la Seconda guerra mondiale, e poi la guerra civile del 1943-45, dimostrarono che in nome della patria si potevano commettere errori e infamie fra le peggiori della storia umana.

Da allora, e per più di mezzo secolo, «patria» divenne una parola impronunciabile, imbarazzante, sospetta, un indizio grave, quasi una prova, di fascismo. Un concetto che Friedrick Dürrenmatt ha riassunto così: «Patria si fa chiamare lo Stato ogni volta che si accinge a compiere assassini di massa».

In realtà la patria altro non è che quel che esprime il suo nome, la terra dei padri, la grande casa dove un popolo si sente tale senza doversi chiamare «gente»: un bellissimo concetto riemerso proprio con il sacrificio di Nassirya.

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