R oma, esterno giorno. Edicola in quel di Monteverde, quartiere popolar-chic della capitale, antica tradizione di sinistra. La giornalaia, valorosa militante storica «del Partito», distribuisce ai clienti interessati i santini delle primarie Pd. Un solo candidato, Gianni Cuperlo: «È l'unico che può tenere alta la bandiera di Enrico», spiega al signore che se lo rigira tra le mani perplesso: «Enrico chi?», fa lui.
Ecco, Enrico chi? Con le primarie di ieri si è consumato un evento epocale per la politica italiana: finalmente, con decenni di ritardo rispetto a tutta Europa, è finita la grande anomalia italiana, ed è stato chiuso il Pci. Quello di Togliatti, Longo e Berlinguer, sopravvissuto nelle sue varie metamorfosi e cambi di sigla a tutte le catastrofi della propria storia.
«L'ultima Bolognina», titolava ieri il Manifesto. Eppure, stavolta è successo qualcosa di più importante della Bolognina: lì si trattò solo (sia pur con tutti gli psicodrammi del caso) del primo cambio di un nome che, nell'Europa liberata dal Muro, era diventato un marchio d'infamia. Ma la «svolta» fu faticosamente decisa e gestita dalla stessa nomenklatura che si era orgogliosamente definita «comunista» fino al giorno prima. La «Ditta», come la chiama Bersani, ha cambiato insegna ma è sempre rimasta nelle stesse mani, e anche se ogni tanto veniva piazzato in posizione apicale un democristiano amico, Prodi o Franceschini, o persino un ex radicale come Rutelli, le chiavi di casa e della cassa sono rimaste sempre in mani ex Pci. Fino all'arrivo del marziano Matteo Renzi, uno che non solo non è mai stato comunista ma neppure democristiano (la Dc era già chiusa quando ha iniziato a far politica) e che è stato sufficientemente pazzo per buttarsi - da solo - all'arrembaggio del Partito. Incassando una sonora sconfitta, un anno fa; e poi riprovandoci. E prendendosi la Ditta. Nonostante il disperato tentativo di difesa del fortino che Massimo D'Alema ha compiuto, cercando fino all'ultimo il compromesso: «Noi ti incoroniamo e ti candidiamo premier perché prendi i voti, ma il partito lasciacelo». Nonostante l'appassionata resistenza degli ex Pci e la capillare mobilitazione dello Spi-Cgil, che nella lettera ai «cari compagni» ha avvertito che in gioco c'era «il destino del più grande partito della sinistra». Ma che l'ora della svolta vera fosse arrivata lo si è capito quando Renzi, attaccando a testa bassa la Cgil davanti a vaste platee Pd, ha iniziato a beccarsi vere e proprie ovazioni.
Gianni Cuperlo, l'uomo che per la difesa della Ditta si è sacrificato, ha lanciato il grido di dolore e di allarme, alla vigilia del voto: «Domani non si decide sulle sorti del governo, né sulle sorti personali dei tre candidati. Domani è in gioco l'autonomia della sinistra». E per sinistra gli uomini cresciuti nel Pci hanno inteso sempre e solo una cosa: il Pci. Che è, nella loro testa, molto più che un semplice «partito». È una «comunità di destini», come dice Cuperlo, un'entita quasi soprannaturale, religiosa, mistica, metapolitica. Basta ascoltare come lo teorizza il mentore del candidato della Ditta, Alfredo Reichlin: «Il banco di prova del nuovo segretario del Pd sta nella necessità di mettere in piedi un partito e non solo una organizzazione elettorale, un partito società, un luogo dove si forma una nuova classe dirigente e dove si possa elaborare un disegno etico e ideale».
Ora gli sconfitti organizzano la resistenza. «Mi dicono che Renzi farà una segreteria monocratica, tutta di amici suoi. Ma si ricordi che noi lo consideriamo un osso duro, ma lo siamo anche noi», avverte Ugo Sposetti, indomito tesoriere dei Ds.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.