Malagiustizia

Avvocati in rivolta contro i giudici

Diritti negati per snellire i processi in appello. La denuncia di un legale milanese: "Ci impediscono le arringhe"

Avvocati in rivolta contro i giudici

Milano - «I giudici non ci stanno più neanche a sentire, anzi ci interrompono se cerchiamo di parlare. Come se il nostro lavoro non fosse più quello di difendere gli imputati ma di accompagnarli al patibolo». Sono le 10.30 di ieri mattina, e un avvocato milanese racconta così come sta cambiando la macchina della giustizia. In nome dell'efficienza e della celerità, dicono gli avvocati, vengono calpestati i diritti degli imputati. La conseguenza è che i tempi delle sentenze rimangono biblici, ma in compenso le garanzie delle difese previste dalla legge finiscono azzerate. Anche questa è malagiustizia.

Non è un grido di dolore isolato, quello dell'avvocato che si sente ridotto a un accompagnatore. Ieri mattina, nella saletta al primo piano del palazzaccio, si riuniscono i penalisti milanesi. Quasi ognuno di loro ha una storia da raccontare su quanto accade, soprattutto nelle aule dei processi d'appello. Nell'autunno scorso la Camera penale di Milano invitò gli avvocati a mettere per iscritto le loro storie di ingiustizia vissuta. All'appello ha risposto appena una manciata di professionisti: perché inimicarsi i giudici è sempre imprudente. Ma basta la lettura di questi pochi racconti, e ascoltare i racconti assai più numerosi che viaggiano per via orale, per rendersi conto che qualcosa sta cambiando. E non in meglio.

C'è un caso, uno solo, in cui un avvocato racconta di essersi ribellato al giudice che cercava di zittirlo: ne è nato un pandemonio. Ma nella maggior parte dei casi i difensori scelgono di subire, per non peggiorare la situazione. A essere indicati come i protagonisti della svolta repressivo-sbrigativa sono soprattutto i giudici della Corte d'appello, in alcuni casi con nome e cognome. Il processo d'appello dovrebbe iniziare con la relazione di uno dei giudici: ma questo, dicono i legali, ormai non avviene praticamente più, la relazione viene «data per letta»: «E così per noi diventa impossibile capire cosa i giudici abbiano capito del processo che devono celebrare». Poi c'è la requisitoria della procura generale, che quasi sempre chiede la conferma delle condanne. Poi, in teoria, la parola dovrebbe passare al difensore: che però viene sempre più spesso invitato a «riportarsi», ovvero a stare zitto e a sperare che i giudici abbiano letto con attenzione il suo ricorso.
«Se un avvocato rifiuta di “riportarsi” e rivendica il suo diritto a intervenire - racconta un legale in uno degli esposti - il suo processo viene trattato per ultimo».

E quasi sempre sugli atti che decidono della sorte di un uomo piomba il timbro: condanna confermata.

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