Ne rimarrà in piedi uno solo. O forse nessuno dei due, perché lo tsunami grillino potrebbe non arrestarsi più. Di certo, il duello fra Giorgio Napolitano e Pier Luigi Bersani, cominciato quella sera del novembre 2011 quando il capo dello Stato fece trangugiare al segretario del Pd il governo tecnico, è arrivato agli ultimi colpi. I più duri, i più pericolosi. Che lo scontro avvenga fra un dirigente storico del Pci e un comunista emiliano può forse apparire un paradosso, ma in realtà è la controprova della sostanza politica in gioco. Che si potrebbe semplificare così: da una parte c'è il tentativo di arginare la rivoluzione grillista con un po' di buona politica, dall'altra c'è la pervicace volontà di inseguire Grillo su tutti i fronti per accaparrarsi la poltrona di Palazzo Chigi che gli elettori hanno negato a Bersani. Mentre il Quirinale lavora, dal pomeriggio del 25 febbraio, a una soluzione condivisa del rebus elettorale che non ha consegnato nessun vincitore né numerico né politico, il leader del Pd si accanisce nella direzione opposta, disfacendo rumorosamente ogni volta la tela che Napolitano prova a tessere in silenzio.
Bersani vuole l'incarico a tutti i costi, e lo vorrebbe pieno e senza riserva, così da andare direttamente in Parlamento e conquistarsi, se non una maggioranza, quantomeno il diritto di sedersi a Palazzo Chigi e condurre il Paese a nuove elezioni. Napolitano sa che questo non è possibile, e che qualsiasi soluzione deve passare, come del resto è ovvio in un regime parlamentare, dal consenso di una maggioranza.
E non di una maggioranza qualsiasi: anche i sassi sanno che Grillo non accetterà accordi, per il buon motivo che la sua ragione sociale è lo sfratto definitivo dei partiti, senza eccezione alcuna. Dunque qualsiasi accordo deve coinvolgere anche il Pdl e, possibilmente, Scelta civica. I richiami più volte espressi da Napolitano (senza esito) in queste settimane, gli inviti alla responsabilità e alla moderazione, gli appelli al buonsenso sono andati in questa direzione. Ma Bersani ogni volta ha fatto spallucce.
Quando cadde il governo Berlusconi, Bersani chiese le elezioni anticipate. Non le ottenne perché la crisi finanziaria non le consentiva, e fu costretto ad accettare Monti e la «strana maggioranza». Molti nel Pd, convinti di vincere a man bassa, pensarono però a un dispetto del Quirinale, che in passato non aveva mancato di sottolineare, ricordando la lezione di Antonio Giolitti, lo scarso tasso di riformismo, e dunque di affidabilità, del partito bersaniano. Quei malumori non si sono mai sopiti, e le distanze sono cresciute. Del resto, Napolitano non aveva torto: lo sfilacciamento del governo Monti comincia con l'attacco della Cgil alla riforma Fornero, subito spalleggiato da un Pd arroccato sul fronte conservatore.
Può considerarsi un dispetto (anche) a Napolitano il mancato accordo sulla riforma elettorale, più volte e insistentemente richiesta dal Quirinale: il Porcellum faceva comodo a tutti, ma il Pd - in testa a tutti i sondaggi - era convinto di poterne trarre un vantaggio senza precedenti: «vincere» le elezioni con meno del 30% dei voti. Peccato che esista anche il Senato. Dopo il voto Bersani si è comportato come se Palazzo Chigi gli spettasse di diritto. Ha escluso da subito ogni possibile intesa - anche tecnica, anche transitoria - con il Pdl, rialzando la muraglia dell'antiberlusconismo sperando di accattivarsi la simpatia dei grillini. Il suo braccio destro, Migliavacca, si è detto favorevole all'arresto di Berlusconi (peraltro non richiesto da nessuno) proprio mentre Napolitano cercava di ricondurre la magistratura nel suo alveo costituzionale. Bersani ha poi bruciato ogni possibilità di intesa sulle presidenze delle Camere, imponendo due dei suoi (il cui pregio maggiore è non essere mai stati prima in Parlamento: e chissà che Napolitano non abbia avuto un altro sussulto), e ora punta a occupare anche il Quirinale, respingendo con sdegno la proposta di Alfano di una presidenza condivisa.
Peggio di così, le consultazioni non potevano cominciare. Alla ragionevolezza istituzionale di Napolitano, Bersani ha opposto giorno dopo giorno una linea avventurista. Ma se vince l'avventura, perdono tutti. Tranne Grillo, naturalmente.
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