Roma - Scosso. Allibito. Amareggiato. Claudio Scajola è uomo dalla scorza dura, abituato a incassare e contrattaccare colpo su colpo. Questa volta, però, fa fatica a nascondere il dolore per la nuova tegola che gli è piovuta addosso.
Onorevole Scajola, aveva avuto avvisaglie di questa indagine?
«No, è stato un fulmine a ciel sereno. Ero in viaggio quando mi è arrivata la notizia che una notifica giudiziaria mi attendeva a Roma. Nel frattempo è uscito un dispaccio di agenzia che faceva il mio nome».
La notifica l'ha aiutata a fare chiarezza?
«No, cita soltanto due articoli del codice penale. Evidentemente le agenzie vengono informate, io no. Sono disponibilissimo ad essere ascoltato immediatamente dalla Procura di Napoli. Anzi, nonostante tutta l'amarezza e la rabbia, spero accada al più presto».
Il suo avvocato ha avuto indicazioni sull'interrogatorio?
«No, l'ho nominato due ore fa. Gli ho chiesto se si poteva andare subito, mi ha risposto di no. Io rispetto la giustizia ma non voglio entrare nella giungla del cannibalismo giudiziario e delle strumentalizzazioni, un incubo che ho già vissuto. Spero si rispetti lo Stato di diritto».
Ha paura di un nuovo marchio a fuoco, dopo quello della casa a sua insaputa?
«Sono da tempo sotto pressione per vicende fondate sul nulla. Sono stanco. Ricordo che quando ci fu la vicenda della casa mi dimisi per rispetto delle istituzioni. Quella mossa fu intesa come una ammissione di colpa. Di certo dissi una frase infelice, una ingenuità percepita come una fandonia. Ma le chiedo: se avessi saputo che c'era qualcosa di strano, avrei intestato quella casa a me facendo il rogito al ministero? Sarei stato davvero così stupido? Comunque quella casa l'ho venduta».
Ora l'accusa è di aver preso una mega-tangente su una commessa di fregate per il governo brasiliano.
«Rivendico con orgoglio nella mia attività di ministro dello Sviluppo Economico di essermi battuto come un leone, pur con tutti i miei limiti, per aiutare le aziende ad allargare il loro mercato e favorire l'export italiano. Mi sono battuto per Finmeccanica, Fincantieri, Fiat, Ferrero, e tante volte contro la contraffazione del nostro prodotto».
Cosa ricorda della vicenda Fincantieri-Brasile?
«Il presidente Lula mise in campo un grande piano di investimento e cercai di perorare al meglio la causa di Fincantieri. Mi vanto di averlo fatto nell'interesse del Paese. Che ci sia stato un qualsiasi interesse privato è un fatto macroscopico che mi offende. Per dirne una: io non ricordo neppure se alla fine queste navi, queste fregate Fremm, vennero comprate oppure no. Se questo avvenne fu nel periodo in cui non ero più ministro. Sarei anche curioso di sapere se questo contratto di mediazione di cui parlano le agenzie venne davvero stipulato».
Secondo il suo accusatore lei si sarebbe mosso potendo contare su un rapporto di amicizia molto stretto con il ministro della Difesa brasiliano, Jobin.
«L'ho incontrato tre volte. Una volta in Brasile con Lula, una volta in Italia, una volta per una colazione. Nelle visite, ovviamente, ebbe incontri anche con altri ministri. Gli esposi il piano industriale di Fincantieri, sottoposta alla forte concorrenza di americani e tedeschi. Viste le circostanze mi sembra impossibile che qualcuno possa avermi tirato in ballo per mediazioni di altro tipo di cui non so nulla».
Si parla di tangenti per 2,5 miliardi.
«Ma si rende conto di quali cifre stiamo parlando? Ma le sembra credibile? Io ho fatto tutto alla luce del sole alla presenza di funzionari ministeriali. Si trattava di incontri ufficiali.
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