Anche Angelino al consiglio ma è solo il nome del pullman

RomaAngelino c'è. Eccolo, parcheggia davanti al Palazzo dei Congressi all'Eur. È il nome sul pullman bianco dell'omonima azienda campana di trasporti che ha portato una truppa di delegati «azzurri» di ritorno nel metafisico palazzo romano in cui il Pdl trasla in Forza Italia. Il mezzo - scelto da un improvvido oppure da uno pieno di senso dell'umorismo, comunque da un genio - si guadagna più scatti di Mara Carfagna e regala qualche sghignazzo a chi sta aspettando l'arrivo di Silvio Berlusconi. Ne scende anche Nitto Palma, che gioca: «Era un auspicio per l'unità».
L'unico Angelino è un pullman bianco. Perché l'altro Angelino, quello che è un nome di battesimo e non un cognome, non c'è al consiglio nazionale di un partito che cambia pelle in un clima da tragedia greca di figli che sconfessano i padri, di fratelli che litigano con i fratelli e di quello che qualcuno definisce tradimento. Non Berlusconi, che anzi invita tutti a moderare i termini contro quelli che sono a tutti gli effetti dei transfughi, anche se loro dicono di essere rimasti fermi, che sono gli altri, i più, a essersene andati. Punti di vista. La platea una sua idea se l'è fatta; e scandirà quelle quattro sillabe («tra-di-to-ri!») più volte nel corso del fatidico sabato mattina.
Anche Berlusconi in realtà ha il suo alter ego. Un sosia in trench e borsalino che si sbraccia, mostra ritagli di vecchi articoli di giornale, attira fotografi impigriti. Tutti i grandi eventi attraggono una varia umanità che alligna nel sottoclou, in cerca di visibilità. Ma quest'uomo che al Cavaliere assomiglia poi così così, a suo modo incarna alla perfezione lo spirito del giorno: un ritorno alle origini, a quel 1994 che evoca nel look e nelle mossette che fanno tanto Bagaglino. Oggi ci sta. Qualcuno segnala anche un sosia di Dudù, il first dog, ma non possiamo confermare. Pochi metri più là, ecco i «falchetti»: una ventina di ragazzi che fanno corona agli ormai celebri fratelli Zappacosta, tutti dietro uno striscione: «Forza Silvio».
Ma è una kermesse sobria, una celebrazione composta, senza scenografie hollywoodiane. La spaccatura è fresca di poche ore, e poi è tempo di crisi. I gadget sono pochi, si riciclano quelli del 1994: un po' è orgoglio delle origini, un po' parsimonia, un po' che non serve. La liturgia dell'evento è presto fatta: Berlusconi, what else? Ed eccolo, il Cavaliere, quello vero. Arriva una decina di minuti dopo le 11. Doppio petto blu, sguardo stanco ma sorridente. Da un po' lo aspettano i suoi: Renata Polverini, Mariastella Gelmini, Mara Carfagna, Augusto Minzolini, Sandro Bondi, Michaela Biancofiore, Laura Ravetto, Alessandra Mussolini (che dribbla con sapienza la jena Lucci), Jole Santelli che all'ultimo ha lasciato gli alfaniani, Anna Maria Bernini, Daniela Santanchè, Iva Zanicchi, Stefania Prestigiacomo. E ancora Denis Verdini, Renato Brunetta, Raffaele Fitto, Maurizio Gasparri. Ci sono anche amici della prima ora ricomparsi per il ritorno al futuro: Antonio Martino («della prima Forza Italia avevo la tessera numero 2, ora avrò la 200mila»), Aldo Brancher, Melania Rizzoli. Alla fine si conteranno 613 presenti su 860 aventi diritto. Dei 247 assenti 27 sono giustificati. Insomma, a spanne manca solo un quarto del vecchio Pdl.
Quando Berlusconi entra nel palazzo razionalista partono i due inni, di partito e di Mameli. Sui video scorrono vent'anni di vita politica. Poi prende la parola. Un'ora e mezzo di discorso filato, una partita di calcio senza intervallo. Un lieve malore finale, un bicchiere d'acqua provvidenziale passatogli dal medico personale Alberto Zangrillo («lo beva, subito»). Poi si vota per certificare il trasloco armi bagagli e niente Angelino alla nuova-vecchia sigla. Brunetta si sgola: non vuole acclamazioni, pretende che ognuno ci metta la faccia. O almeno il badge. Una foresta di braccia si alza, molte lacrime scendono. Poi il pranzo nel backstage con la fidanzata Francesca Pascale, elegantissima in total black, e alcuni fedelissimi.

Quando più tardi Berlusconi esce, la folla lo saluta con affetto, lo invita ad andare avanti. Qualcuno gli chiede di Alfano e lui si incupisce: «Ci avrei messo la mano sul fuoco, per me era come figlio». Era. Imperfetto. Appunto.

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