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Assunti da Cosa nostra, licenziati dallo Stato Così la lotta al pizzo fa flop

Il caseificio "Provenzano" confiscato alle cosche chiude, schiacciato da fisco e debiti. E lascia a casa 39 persone

Assunti da Cosa nostra,  licenziati dallo Stato  Così la lotta al pizzo fa flop

Cosa Nostra assume, sfrutta e lucra. Lo Stato promette, regolarizza e licenzia. E così regala alla mafia uno spot che rischia di valere più di tutta la lotta al pizzo fatta a colpi di discorsi e cerimonie.

Di sicuro è questo il messaggio che lo Stato ha mandato ai 39 dipendenti del caseificio «Provenzano», cuore pulsante dell’economia di Giardinello, poche case e 2mila abitanti a una quindicina di chilometri da Palermo. L'azienda, «che per noi giardinellesi era un po' come la Fiat per Termini Imerese», commentano in paese, era considerata un'impresa modello. Coi suoi latticini venduti in tutto il mondo sfruttando solo il latte siciliano. Aveva un solo neo: essere in odor di mafia. Ma nel 2008 tutto cambia: il complesso aziendale, fino a quel momento nella disponibilità di Giuseppe Grigoli, per gli inquirenti prestanome del capo dei capi Matteo Messina Denaro, viene sequestrato e poi confiscato. Per farne cosa? Un caseificio d'eccellenza. «Quando come sindacato ci affacciammo in fabbrica- ricorda oggi Nuccio Ribaudo, segretario della federazione palermitana dei lavoratori agricoli iscritti alla Cgil-il primo passo fu di impegnarsi per il riconoscimento dei diritti contrattuali dei lavoratori, 13 dei quali erano già stati licenziati». Di fronte, una montagna di debiti alta 28 milioni di euro. Ma quel che avrebbe scoraggiato anche il più ardito degli imprenditori non spaventa gli amministratori giudiziari inviati a rimettere i conti in ordine. Le banche, però, mordono il freno: la legge non prevede che il Ministero fornisca garanzie per operazioni di salvataggio finanziarie e il rischio di perdere il capitale investito è troppo forte. Inizia allora il tira e molla: gli istituti bancari dicono sì ad un piano di rientro, ma al prezzo di nuovi licenziamenti. Il sindacato si oppone e risponde con contratti di solidarietà. Che salvano bilanci e posti di lavoro.

Si riparte così. Da diversi Paesi europei giungono commesse che sembrano restituire speranza e fiducia, ma lo Stato ci rimette lo zampino. «Il caseificio vantava dall'Agenzia delle entrate un credito Iva di quasi 2 milioni di euro, su cui si contava per onorare le scadenze pattuite con le banche e pagare i fornitori. Nessuno è stato in grado di farceli riavere», mastica amaro Ribaudo. Risultato? Il caseificio è fallito: nel giorno in cui il mondo intero ricordava la strage di Capaci, agli amministratori giudiziari del «Provenzano» non è rimasto che alzare bandiera bianca e mettere in moto la procedura di mobilità per i 39 dipendenti.

Un caso isolato? Nient'affatto: alla vigilia di Pasqua identica sorte è toccata alle maestranze dell’ «Antica masseria dell'alta Murgia», capitale dei banchetti nuziali al confine tra le cittadine pugliesi di Gravina e Altamura: confiscata e affidata per il suo rilancio al noto chef Gianfranco Vissani, è stata travolta dai debiti. Diventerà, forse, una scuola di formazione. «È evidente: la legislazione antimafia è lacunosa», affonda i colpi Ribaudo. «Non sono previste garanzie sotto il profilo del credito e neppure in ordine alla commercializzazione: se a noi fosse stato consentito di destinare i nostri prodotti di qualità alla rete delle mense scolastiche, ce la saremmo cavata. Il messaggio che passa è devastante: sotto le cosche si sta meglio. E lo grida gente che prima, per lavorare, doveva versare il pizzo sullo stipendio».

A Giardinello, cosche permettendo, confidano di mettere su una cooperativa e di riprendersi il «Provenzano» coi soldi del Tfr e con quelli della cassa integrazione. Sulle Murge ancora non hanno deciso.

Ma di certo lo Stato non ha saputo dare il buon esempio.

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