Prima battaglia per la riforma: la separazione delle carriere

Uno dei referendum dei Radicali punta a distinguere i percorsi di giudici e pm: solo così accusa e difesa sarebbero alla pari e chi emette sentenze davvero super partes

Prima battaglia per la riforma: la separazione delle carriere

Il Guardasigilli Annamaria Cancellieri lo ha detto più volte chiaramente: «La separazione delle carriere dei giudici non è all'ordine del giorno del governo». Eppure da più parti e da molto tempo si invoca questo strumento come solo elemento che possa garantire la parità delle parti della difesa e dell'accusa davanti al giudice e l'estraneità di questi rispetto alle due parti. Anni fa Giovanni Falcone ne aveva fatto una malattia: parlando di «un'indubbia anomalia rappresentata dall'unicità delle carriere, estranea, non a caso, a tutti gli ordinamenti dei più importanti Paesi occidentali». Il Pdl ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia, perno della riforma della giustizia firmata da Angelino Alfano che non ha fatto in tempo a vedere la luce. Ora la speranza è racchiusa in uno dei dodici quesiti referendari sui quali i Radicali stanno raccogliendo le firme, sul quale infatti Marco Pannella ha trovato l'appoggio incondizionato del centrodestra.

Ma che cosa vuol dire la separazione delle carriere dei magistrati e in che modo può condizionare l'esito di un processo? Per capirlo bisogna considerare le differenze tra i due sistemi processuali penali fondamentali, quello accusatorio e quello inquisitorio. Due modelli, si badi, che sono solo ideali: due poli estremi di una scala lungo la quale si pongono i sistemi processuali realmente applicati dai vari Paesi. Nel sistema accusatorio il giudice è puro e la sua neutralità assoluta. Si esprime in base alle risultanze di una procedura in cui le parti - l'accusato assistito dal suo difensore e l'accusatore, ovvero il pubblico ministero - concorrono ciascuno dalla sua parte a introdurre le questioni di fatto e le prove e a esaminare ed eventualmente smontare queste ultime anche grazie a strumenti come la cross-examination (l'interrogatorio incrociato dei testimoni) resi celebri da film e telefilm americani. Non è un caso che il modello accusatorio è tipico del sistema giuridico anglosassone, che si rifà al principio della common law. Tutte le più grandi democrazie hanno visto il prevalere netto di questo sistema. Nel sistema inquisitorio cambia invece il ruolo del pubblico ministero, che pur essendo distinto dal giudice ne condivide alcuni compiti e obiettivi: avvia d'ufficio il processo e collabora con il giudice all'introduzione e all'esame delle prove nel processo penale, con ciò creando un dislivello piuttosto pronunciato tra l'accusa e la difesa.

In Italia fino al 1989 vigeva il sistema inquisitorio, spazzato via dall'entrata in vigore, nel 1989, di un sistema formalmente accusatorio. Formalmente, sì. Perché in realtà, pur se è stata cancellata la figura del giudice istruttore (vero deus ex machina del processo, che avviava d'ufficio il processo, introduceva le questioni di fatto, acquisiva e valutava le prove e tirava le fila dell'inchiesta), il sistema italiano non è puramente accusatorio ma misto. Accusa e difesa non sono davvero sullo stesso piano, non fosse altro per il fatto che l'essere giudice e accusatore colleghi può creare favoritismi anche subliminali. I fautori del sistema attuale assicurano che questo è l'unico che permette ai pm di non essere l'«avvocato della polizia» asservito di fatto al potere esecutivo e di acquisire una completa cultura giuridica. Vantaggi che appaiono discutibili e comunque certamente meno pregnanti rispetto alla vivificante imparzialità che in fin dei conti è il cardine del sistema giudiziario.

La separazione totale delle due funzioni giudiziarie prevede anche due percorsi di carriera separati sin dall'origine tra giudici e pubblici ministeri e quindi l'esistenza di due organi di autogoverno distinti: nascerebbe in pratica anche un Csm dei pm. Se la legge deve essere uguale per tutti, che lo sia davvero.

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