Bersani nega l'evidenza Il partito nel panico gioca allo scaricabarile

«S ento da Lega e Pdl che in modo quasi subliminale vogliono far credere che abbiamo delle responsabilità. Si azzardino a dirlo che li sbraniamo». La crisi di nervi di Pier Luigi Bersani, a pochi giorni dall'esplosione dello scandalo Montepaschi, rischia di seppellire per sempre l'immagine mediocre e rassicurante che il segretario del Pd si è costruito in anni di understatement e di sereno galleggiamento. Livido di rabbia e lievemente grottesco, Bersani accusa il centrodestra di manovre «subliminali», quando l'intero mondo politico italiano - da Ingroia a Monti - e persino la stampa amica (con l'eccezione della sovietizzante Unità), da giorni non parla d'altro.
Al Nazareno cominciano a preoccuparsi. Gli ultimi sondaggi non sono andati molto bene (crescono tutti, cala il Pd), e quelli della prossima settimana sono attesi con autentico terrore. Incapace di dire una parola chiara sullo scandalo che ha travolto la banca controllata dal Pd attraverso la deputazione di nomina politica, il gruppo dirigente democrat si attorciglia in prese di distanza, allusioni e contorcimenti il cui obiettivo sembra essere uno solo: lo scaricabarile.
La palma della sfacciataggine va al giovane Stefano Fassina, che da due giorni ripete alla radio e in tv che «non era il Pd locale che influenzava la banca, ma era la banca che influenzava il Pd»: come se un partito infiltrato dai banchieri fosse più rassicurante agli occhi degli elettori che fra un mese sceglieranno il prossimo presidente del Consiglio. E senza accorgersi che nelle stesse ore Massimo D'Alema andava dicendo l'esatto opposto: «Noi, e per noi intendo il Pd di Siena nella persona del sindaco Franco Ceccuzzi, Mussari lo abbiamo cambiato un anno fa, assieme a tutto il consiglio di amministrazione del Monte dei Paschi». Chi ha ragione? I banchieri controllano il Pd (senza neppur bisogno delle primarie), o è il Pd che cambia i banchieri a proprio piacimento?
L'intreccio fra politica e affari - che è il cuore dello scandalo Montepaschi - è troppo stretto per essere negato, ma anche troppo imbarazzante per essere ammesso. E così persino nelle migliori famiglie capita che non ci si trovi d'accordo. Su Repubblica di ieri Luigi Berlinguer, cugino di Enrico, ex ministro dell'Università, senese d'elezione ed ex rettore dell'Università, spara sul Pd locale, accusato apertamente di «intromettersi nell'attività ordinaria di una banca, nell'assetto dei suoi organi, nelle nomine, nella politica creditizia», ma fermissimamente nega ogni responsabilità nazionale: «Il Pds, i Ds, il Pd sono stati sempre ostili a questa commistione. Ripeto: il partito non c'entra nulla». Ma suo figlio Aldo, ex cda dell'aeroporto di Siena, ex cda di Antonveneta dopo l'acquisizione (ad un prezzo esorbitante) da parte di Mps, racconta al Corriere un'altra storia: «Il Monte ha un legame strutturale molto accentuato con la politica. Sarebbe ipocrita negarlo, sono ipocriti coloro che fingono di scoprirlo solo ora».
Lo scaricabarile e il rimpallo delle responsabilità coinvolgono, in un vorticoso girotondo, tutti i dirigenti del Pci-Pds-Ds-Pd che si sono occupati a vario titolo della banca senese: l'ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco accusa Franco Bassanini di aver coperto e difeso l'intreccio fra il Banco e il partito; quest'ultimo replica (con una lettera al Corriere) sostenendo l'esatto contrario: i dissensi con Visco ci furono, certo, ma a causa della «mia ben nota convinzione che la politica e i partiti debbano stare alla larga dalle banche». Controreplica (dalle colonne di Repubblica) di Luigi Berlinguer: «Bassanini si è sempre sentito il rappresentante delle esigenze degli enti locali senesi».
Su questa strada, Bersani rischia di rompersi l'osso del collo. Negare l'evidenza, mentre nel suo partito si fa a gara per scaricarsi le responsabilità l'un l'altro, difficilmente produrrà buoni risultati. Il piano che Bersani sembra accarezzare in questi giorni prevede due linee di difesa: la prima, che in realtà è già crollata, nega per l'appunto ogni responsabilità, come se a Siena negli ultimi settant'anni avessero governato gli alieni.

La seconda linea di difesa è più rischiosa, e potrebbe scattare se le cose si mettessero davvero male: tirarsi fuori, accollare le responsabilità ai predecessori, prendere le distanze e sperare che il trucco funzioni. E di predecessori ce ne sono parecchi, ma uno svetta su tutti: il ministro degli Esteri in pectore, Massimo D'Alema.

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