Bersani parla da vincitore e resuscita i toni anti Cav

Il segretario del Pd liquida l'ostacolo Renzi: "Non ci sono foglie nuove se si tagliano le radici". Poi lo provoca: è capace di dire "destra"?

Milano - «Se toccherà a me», è la premessa del segretario all'appello finale, «io non cercherò di piacervi, ma vorrò essere creduto, dicendo la verità. Perché tutti insieme dovremo venire fuori da questa crisi».

La giornata di Pier Luigi Bersani all'ultimo giro delle primarie comincia dalla Casa di Alex, periferia nord di Milano. Cronisti, fotografi, pubblico stagionato, giacconi, qualche sciarpa rossa, spicca un loden isolato. Lui è in abito grigio. Di prima mattina Matteo Renzi l'ha invitato a «un caffè insieme» visto che sono entrambi a Milano. «Anche un pranzo, ma non oggi, per problemi logistici», è la risposta. Il programma è fitto. C'è spazio solo per un'intervista con Nicola Porro per In Onda («A me basta il 51 per cento. Il bello del ballottaggio è questo. Poi è chiaro: uno più ne prende più è contento»). Superata la ressa e le foto con i militanti si parte per Novara e il comizio finale a Torino. La tensione si stempera, ma i paletti sul ballottaggio restano: «Andiamo a votare stando dentro le regole che ci siamo dati», taglia corto. Quanto al Pdl, «anche loro facciano le primarie. Sarebbe salutare per la democrazia. Ma quelli di destra devono partecipare alle loro primarie non alle nostre».

Il match con Renzi è ancora acceso, per esempio sulla questione palestinese: «Come si fa a dire che non è il problema. Neanche la destra dice più certe cose», rincara. «Bisogna aiutare chi cerca la pace e finirla di darla vinta a chi lancia i missili». Ma è «la destra», il vero bersaglio del segretario. Che si chiede, tra gli applausi, se il suo contendente sia «in grado di pronunciare questa parola».

L'interrogativo retorico fa da trampolino. E allora si può metter da parte il «se toccherà a me» e parlare da candidato premier. Lo scenario è già quello di domani, spoglio avvenuto. La parola chiave è «popolo», contrapposto a «populismo». «Il centrosinistra è un grande popolo che ha le sue radici. Foglie nuove tagliando le radici io non ne ho mai viste», manda a dire al rivale. Prima di rituffarsi nell'antiberlusconismo: «Noi non siamo quelli dell'uomo solo al comando. Ragazzi... qui è arrivato uno che ha detto che la politica, lo Stato, il fisco, la giustizia gli facevano schifo. Spero che Dio abbia perso lo stampino, perché il populismo e la demagogia sono duri a morire».

Adesso siamo all'inizio di «una nuova fase storica». La protesta, la disaffezione e la rabbia hanno le loro ragioni. «Ma lo abbiamo visto anche in Europa, i populismi finiscono sempre a destra. Anche quello della Rete... come si fa ad accettare che uno ti detti il compito senza mai vederlo in faccia?», dice a un immaginario militante di Cinque stelle. Bisogna guidare il cambiamento. Perciò lui chiederà il voto «per un'alternativa di sistema». In questi vent'anni la destra ha costruito «un'egemonia culturale rubandoci parole come libertà, meritocrazia, opportunità». Ed è riuscita a farlo «perché le ha staccate dalla parola uguaglianza. Per la destra ognuno si salva da solo».
In platea qualcuno scalpita e grida «meno timidezza nei tagli alla casta». Qualcun altro, «c'è troppa burocrazia». Il segretario dà la sua ricetta fatta di «moralità e lavoro». Due parole con i sottotitoli: tassazione delle transazioni finanziarie, recupero dell'evasione, contributi di solidarietà. Applausi e saluti. Non prima di firmare per tre militanti altrettante copie-regalo della Costituzione italiana, «la più bella del mondo» dice dando un assist a Benigni.

Si va all'uscita: segretario, lei vincerà le primarie, ma qualcuno dice che Renzi vincerebbe più facilmente le elezioni.

.. «Qualcuno dice... Penso che il centrosinistra sceglierà il suo candidato migliore».
Qualche dubbio su chi sia?


La percentuale di voti incassata dal segretario del Pd al primo turno delle primarie domenica scorsa

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