Bersani sconfessa la Bindi e dice sì alle unioni gay Ma il Pd: parliamo d'altro Tutti i volti del segretario

RomaPer carità, sull'equiparazione dei diritti per le coppie omosessuali ora quasi tutti (almeno a parole) sono d'accordo, nel Pd. D'altronde è ciò che ha già da anni stabilito ogni governo, di sinistra ma anche di destra, dell'Occidente. Ma ieri, nei commenti off the record di molti esponenti anche vicini a Bersani si coglieva una punta di controllata irritazione. Così sintetizzata da un ex Ds dalemiano: «Ma possibile che da un mese a questa parte, e con tutto quello che sta succedendo, riusciamo a far parlare di noi solo per i nostri accordi o disaccordi sui gay?».
Già, perché ieri era la gran giornata di Pier Luigi Bersani, quella in cui il segretario del Pd ha annunciato urbi et orbi la sua «carta d'intenti», il suo programma per le prossime elezioni e - soprattutto - la sua piattaforma per le primarie. Ma siti, Tg e giornali titolavano più o meno tutti su quel pur lodevole impegno annunciato ieri, per una volta con grande chiarezza (e in barba alla Bindi, che all'ultima assemblea nazionale Pd ha fatto fuoco e fiamme per evitarlo), da Bersani: «La coppia omosessuale ha diritto a vivere la propria unione ottenendone il riconoscimento giuridico». Applausi nel Pd, le associazioni gay esultano, i cattolici di destra inorridiscono, Casini (che ha già dato il suo silenzioso via libera) tace; ma a tutti, Bersani in testa, avrebbe fatto piacere finire sotto altri titoli.
L'intervento lungamente limato e letto ieri da Bersani nella cornice classicheggiante del Tempio di Adriano (set nel 2009 dell'addio di Walter Veltroni) aveva un obiettivo non dichiarato ma evidente: chiamare a raccolta il popolo della sinistra attorno alla sua candidatura alle primarie. Le parole d'ordine (molto laburismo che piace alla Camusso, una massiccia dose di egualitarismo, una dura scomunica al «liberismo finanziario che ci ha portato in questa crisi», un'energica rispolverata al totem referendario dei «beni comuni» per attirare i grillini di confine) sembrano tarate sulla misura del principale futuro avversario. Non Silvio Berlusconi o Angelino Alfano, bensì Matteo Renzi. Punzecchia Paolo Gentiloni: «Più che scelte di governo ha esposto una visione culturale. Con una certa pericolosa confusione tra liberismo e riformismo liberale, che spero non venga liquidato».
Bersani assicura «lealtà» a Monti fino a fine legislatura, ma dice chiaramente che «non ci piacciono» molte scelte del governo, e promette per il futuro una netta sterzata a sinistra. A cominciare dalla tassa patrimoniale. Un Pd veltroniano fa notare: «L'unica proposta concreta fatta ieri da Bersani, ossia la patrimoniale, era stata liquidata un anno e mezzo fa dal suo responsabile economico, Stefano Fassina». All'epoca era stato Veltroni a lanciare l'idea di un contributo straordinario da parte del «10% più ricco della popolazione», per abbattere il debito pubblico. Fassina bocciò: «Un'idea da scartare, l'unica via per abbassare il debito passa per l'innalzamento del potenziale di crescita attraverso le riforme strutturali e il recupero dell'evasione». Stavolta che a parlarne è Bersani, si chiede l'anonimo critico, «che ne pensa Fassina?».
Nel gruppo dirigente, pronto a schierarsi con Bersani, circola malumore per la totale solitudine in cui ha preparato la scesa in campo, senza anticipare nulla del testo neppure al suo vice o ai capigruppo. Se ne è fatta diplomaticamente portavoce Marina Sereni, vicina a Dario Franceschini: «Serve più collegialità».


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