«Il nuovo inno Pd: Meno male che Silvio c'è». La battuta del finiano Fabio Granata arriva via Twitter durante il voto di fiducia, dall'altro lato dell'emiciclo, dove siedono i parlamentari di Futuro e Libertà, e suscita risatine tra i banchi del Pd.
Da ieri mattina, quando Berlusconi ha dato fuoco alle polveri e tolto la maggioranza al governo del professor Monti, nel partito di Pier Luigi Bersani l'imperativo categorico è: mostrarsi «responsabili», sostenere lealmente il governo fino all'ultimo istante, e non dare a nessun costo l'impressione che il Cavaliere stia facendo al Pd il più bel regalo di fine anno. Confermando quello che al Nazareno viene colloquialmente indicato come «il fattore C di Bersani». Insomma, il primo obiettivo in questa fase è che il cerino bruci fino in fondo nelle mani di chi lo ha acceso, ossia il centrodestra. Per questo il segretario ha imposto una frenata alle dichiarazioni un po' precipitose della capogruppo al Senato Anna Finocchiaro che, dopo l'annuncio di astensione del Pdl sulla fiducia al governo, aveva già sancito la crisi: «Il governo non ha più la fiducia della maggioranza delle aule parlamentari. Credo che Monti debba recarsi al Quirinale». Proprio perché sa che il traguardo si è fatto d'improvviso più vicino, Bersani vuole muoversi con il massimo di prudenza, come si conviene ad un premier in pectore.
Attenti, ha avvertito - citando maliziosamente Esopo - il senatore Pd Marco Follini: «Se il Cavaliere è lo scorpione (che segue il suo istinto) noi dovremmo cercare di non essere la rana (che lo asseconda)». Riconoscendo che c'è un interesse «totalmente speculare» tra Pdl e Pd ad una accelerazione verso il voto che lasci intatto il tanto esecrato Porcellum: prima saranno le elezioni, più facilmente Bersani e i suoi potranno incassare consensi sulla spinta delle primarie (e della fase calante che sta oscurando Grillo), chiudere alleanze alle proprie condizioni evitando defatiganti trattative e gestire la composizione delle liste elettorali. È proprio sul fronte del Porcellum, infatti, che l'exploit berlusconiano toglie le castagne più bollenti dal fuoco ai propri avversari politici: solo due giorni fa, il braccio destro bersaniano Roberto Speranza confidava che per il Pd era difficilissimo resistere al «pressing incalzante del Quirinale» per una revisione della legge elettorale, cui prima o poi si sarebbe dovuto cedere. Così, invece, la responsabilità di affossare ogni idea di riforma e di introduzione di «tetti» per il premio di maggioranza se la assume il centrodestra, e al Pd non resta che organizzare in fretta e furia qualche «consultazione» pubblica regionale sulle candidature (per primarie vere e proprie non ci sarà il tempo, e poi nessuno sa come farle), e riservare una sostanziosa quota di nomi alla segreteria, perché come ha spiegato Bersani in Parlamento ci vogliono anche «gli esperti».
La linea l'ha data ieri pomeriggio, nell'aula di Montecitorio, il capogruppo Dario Franceschini, in un intervento concordato parola per parola con il leader Pd: «Vogliamo che sia chiaro davanti a tutti chi ci sta trascinando verso la crisi», per «scaricare i problemi interni di un partito sugli italiani».
È il numero dei deputati del Pd alla Camera. Al Senato, invece, i senatori democrat sono 104
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