Milano«Lunica giustizia è quella proletaria - tribunali e carceri salteranno in aria». I brigatisti in gabbia e i loro compagni tra il pubblico accolgono urlando questo slogan la sentenza della Corte dassise dappello di Milano che ha appena dato loro ragione: non sono terroristi, come sosteneva la Procura e come gli imputati e i loro avvocati hanno sostenuto durante tutto il processo. Certo, si armavano fino ai denti con le armi comprate al bazaar di Cosa Nostra; certo, volevano ammazzare Pietro Ichino, fare saltare in aria i giornali «borghesi», demolire la residenza del premier. Quindi vengono condannati. Ma, seguendo le precise indicazioni ricevute dalla Cassazione, i giudici cancellano laccusa di terrorismo. Gli eredi del terrorismo degli anni Settanta e Ottanta non sono terroristi.
Sentenza quasi inevitabile, quella di ieri, dopo che la Cassazione aveva annullato il processo dappello che aveva condannato per avere agito «con finalità di terrorismo o di eversione» tutto il gruppo dirigente del Partito comunista armato, lorganizzazione - radicata tra Milano e il Veneto - sorta con lobiettivo di raccogliere e rinverdire i fasti delle Br. Lorganizzazione - a quanto si è visto in aula, un piccolo gruppo di fanatici, ma non per questo meno pericoloso - era stata sgominata dal blitz diretto dal pm Ilda Boccassini nel 2007. In primo e in secondo grado, raccogliendo limpostazione della Procura, i leader Alfredo Davanzo, Vincenzo Sisi, Davide Bortolato e Claudio Latino - erano stati condannati per associazione terrorista. Ma la Cassazione aveva annullato le condanne, con una sentenza che si arrampicava in sottili distinguo tra criminalità politica e terrorismo: e sostenendo che alla fine non cera prova che le nuove Br avessero «il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione o lintenzione di esercitare costrizione sui pubblici poteri». Solo ammazzamenti mirati, insomma. Ed era stato quindi ordinato un nuovo processo dappello.
Con unaltra decisione a sorpresa, la Cassazione aveva anche annullato il risarcimento riconosciuto a favore di Pietro Ichino, il giuslavorista riformista condannato a morte dalle nuove Br, in quanto non era chiaro «quale danno abbia riportato il professore». Ichino ieri si presenta in aula, insieme alla scorta cui è sottoposto da anni proprio grazie alle Br, e cerca per lennesima volta il dialogo con quelli che vorrebbero vederlo morto, e ne raccoglie solo una serie di lazzi e di nuove minacce: «Questo signore rappresenta il capitalismo, lui è lesecutore di questo sistema e noi eseguiremo il dovere di sbarazzarci di questo sistema», gli dice dalla gabbia Davanzo, mentre coimputati e pubblico urlano al senatore del Pd «vergogna, vai a lavorare». Per tutto il corso del processo, daltronde, gli imputati non avevano fatto nulla per edulcorare la propria immagine: come quando Davanzo aveva rivendicato esplicitamente dalle gabbie («fa parte della rivoluzione, e la rivoluzione non si ferma») la gambizzazione del dirigente Ansaldo Roberto Adinolfi. Ma neanche in questo modo sono riusciti a convincere i giudici di essere dei veri terroristi. Vengono condannati per associazione sovversiva, per le armi, per tutto il resto. Lievi, circa un anno, gli sconti di pena: a Latino vengono inflitti undici anni e mezzo, undici a Bortolato, dieci a Sisi, nove a Davanzo. Viene ribadita - e in questo i nuovi giudici dappello danno torto alla Cassazione - la condanna a risarcire centomila euro di danni a Ichino, la vittima designata.
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