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Brusca choc in aula su Capaci: la strage per fermare Andreotti

Il pentito rivela: "Riina non voleva che il leader Dc diventasse presidente". Al processo assente il pm Di Matteo, rimasto a Palermo per le minacce

Il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca
Il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca

Il processo per una resa presunta e forse mai avvenuta si celebra in circostanze che autorizzano a parlare di resa certa, concreta e visibile. Che la Repubblica italiana venti anni fa si sia piegata a dialogare con Cosa Nostra per fare cessare la stagione delle stragi, come sostiene la procura di Palermo, è una ipotesi che dovrà superare il vaglio della Corte d'assise al termine di questo processo. Che oggi lo Stato si dichiari impotente di fronte agli eredi di quella stessa mafia è invece documentalmente provato da quanto avviene ieri nello squallore dell'aula bunker di Ponte Lambro a Milano.

Lo Stato si arrende due volte. La prima quando ammette che non è possibile interrogare in aula a Palermo Giovanni Brusca, boss, assassino, e infine pentito, garantendo che non venga ammazzato sul posto dai suoi ex complici: e per questo l'intera carovana del processo, fatta di giudici, giurati, avvocati, cancellieri, si deve trasferire mille chilometri più a Nord, nella nebbia milanese («a Palermo ieri c'erano venti gradi!», lamentano gli avvocati): e dove Brusca viene interrogato dietro un paravento, circondato da dieci agenti dei Gom, le squadrate speciali della polizia penitenziaria, che se ne stanno in aula tutto il tempo con i mefisto calati sulle facce, come finora si vedeva solo nei processi colombiani ai cartelli della droga. Ma la seconda resa, ancora più eclatante, è quel banco vuoto al primo posto dell'aula bunker. Nino Di Matteo, il più esposto dei pubblici ministeri che rappresentano l'accusa, non ha affrontato il viaggio da Palermo a Milano per motivi di sicurezza (non si capisce bene sanciti da chi): e insomma neanche nella civilissima Milano lo Stato a quanto pare sa garantire che un suo servitore non sia fatto saltare in aria. Colpa di Totò Riina, che in questo processo è imputato, e che chiacchierando all'ora d'aria, e sapendo perfettamente di essere intercettato, si è tolto la soddisfazione di fare sapere a Di Matteo che gradirebbe vederlo morto.

Riina vuole davvero ammazzare Di Matteo? «No comment», risponde il suo avvocato Luca Cianfaroni. Intanto Riina assiste all'udienza che celebra questo suo innegabile succoso (un pm costretto da un imputato a rinunciare alla missione non si era mai visto) da uno stanzino nel carcere di Opera. Il gioco incrociato delle telecamere degli schermi gli manda il racconto in diretta di una voce che conosce bene. È stato lui a tenere a battesimo mafioso 30 anni fa Giovanni Brusca, e ora gli tocca vederlo nei panni dell'«infame», raccontare tutti i segreti dei suoi lunghi anni di latitanza, i suoi tic, «girava sempre con il borsello», e soprattutto i suoi deliri di onnipotenza, quando lancia l'offensiva finale di Cosa Nostra contro lo Stato con un solo obiettivo: «Riina non voleva che Andreotti diventasse presidente della Repubblica». Per questo venne ammazzato Salvo Lima, ras andreottiano in Sicilia, e pure per questo morì Falcone. E pensare che a Riina sarebbe bastato leggere Minzolini per sapere che Andreotti al Quirinale non sarebbe mai riuscito ad andarci comunque.

La testimonianza di Brusca durerà altri due giorni, ma l'impressione è che se il processo Stato-mafia ha in questo imputato-pentito il suo pezzo forte allora la procura non è messa benissimo: perché quando Brusca parla di cose di mafia è preciso e verosimile, ma quando affronta la politica tende a fare un po' di minestrone, come quando dice che dopo la morte di Lima a candidarsi per rappresentare gli interessi di Cosa Nostra furono «Ciancimino, la Lega di Bossi e Dell'Utri»; o soprattutto quando racconta che alla fine la famosa trattativa tra Stato e mafia ruotava intorno a un traffico di opere d'arte, con Cosa Nostra ridotta a chiedere gli arresti domiciliari per quattro vecchi boss in cambio di qualche quadro rubato a Modena, di un cane con la testa mozzata e di un vaso: terminale della trattativa, nientemeno che il povero Giovanni Spadolini.

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