C'era, certo che c'era un filo diretto tra la sua voce e quelle parole, intense, robuste eppure poetiche, mai usate per caso e sempre nel posto giusto, nella canzone giusta. Gli veniva così, a Franco Califano. I suoi toni e il roboare dei bassi le vestivano poi con un taglio sartoriale, neppure una piega. Ciao Maestro.
Avete mai sentito Tutto il resto è noia cantata da un altro? È parodistica, quasi. C'è quel verso, «la barba fatta con maggiore cura», attenzione: «maggiore» e non «maggior», che non poteva essere che suo. Popolano ma aristocratico. Agghindato a festa ma per un giorno qualunque. Aveva quel dono, Franco Califano, lo swing che ti porta fino all'aggettivo perfetto, alla metafora, all'allusione che spiega tutto ma neppure lui sapeva spiegarsi come facesse. «Me vengono» sorrideva, e così diceva anche dei suoi sonetti d'amore e di sesso. Oggi che non c'è più, morto da solo in casa, proprio lui che la apriva sempre agli amici, sarà un temporale di retorica sul grande autore che tutti diranno di aver sempre adorato.
In realtà non è così, e lui lo sapeva benissimo, se ne rammaricava, tra sé e sé si chiedeva come mai, ma com'è possibile. Ha scritto testi favolosi che si sono persi nel vuoto, e persino nel suo debutto, lo sconquassato singolo Ti raggiungerò del 1965, c'è il guizzo del talento che poi il disco L'evidenza dell'autunno, 1973, aveva spiegato canzone dopo canzone, ammutolendo chi non s'aspettava che questo borgataro alto e spaccone, bello come Marlon Brando e vizioso come Steve McQueen, sapesse anche scrivere versi non eversivi né utopici ma semplicemente poetici, innamorati del bello e non di loro stessi. Mai autoreferenziale, altro che, il Califfo. «Mi piace scrivere per altri, perché mi siedo lì, mi immagino di esser loro e però di parlare con il mio cuore».
Ha composto Minuetto, capolavoro. E ha firmato con Mino Reitano Una ragione di più, uno dei brani più belli, struggenti e passionali della nostra canzone d'autore, spesso sottovalutato perché orfano di impegno politico o di visionarietà ideale ma fragoroso e italianissimo nella costruzione e nello sviluppo. Anche per questo Califano, che non ha mai dominato le classifiche né riempito gli stadi, è diventato così popolare, amato, imitato e parodiato fino alla noia. Se girava per Roma, era realmente il Califfo. Bastava che prendesse la sua spider, e una volta l'ha fatto anche con me dal centro fino a Fiumicino, e chiunque lo riconoscesse gli sorrideva, si spostava, lo salutava manco fosse il vicino di casa che gli era andata bene.
Intanto, non sempre gli era andata così bene. Finché erano i deragliamenti d'amore, pazienza, magari faceva arrabbiare qualcuno ma poi basta. Ma nel 1970, quando finì nei guai nella vicenda di Walter Chiari per possesso di stupefacenti, e nel 1983 sconfinò nel caso Tortora per droga e possesso d'armi, fu sempre assolto con formula piena dalla corte ma comunque condannato dai cortigiani a esser sempre quello lì, quello ai confini, quasi un personaggio da commedia all'italiana. «Lo so, ma me ne importa poco» diceva. E poi lui era così, soffriva ma non lo ammetteva manco a pagarlo. Anzi: prima di uscire da Regina Coeli trascorse le ore d'aria della vigilia sempre al sole, «così quando mi vedono abbronzato capiscono che sto bene e non sono battuto».
Già. E sorrideva fuori dalla porta, come sorrideva quel giorno. «Dimenticai di colpo un passato folle in un tempo piccolo» scrisse anni dopo in un altro capolavoro come Tempo piccolo, che ha un verso che lo spiega tutto, questo Califano nobile borgataro: «Dipinsi l'anima su tela anonima e mescolai la vodka con l'acqua tonica».
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