Dolce&Gabbana evasori? No

Al processo in corte d'Appello a Milano, l'accusa chiede l'assoluzione degli stilisti che fecero come Marchionne: spostare le sedi all'estero per risparmiare sul fisco

Dolce&Gabbana evasori? No

Milano - Ieri accadono fatti imprevisti ed inconsueti, nell'aula del processo d'Appello a Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Il primo, e più vistoso, è che la Procura generale chiede l'assoluzione con formula piena dei due stilisti, da sei anni alle prese con l'accusa di avere imbrogliato il fisco. Rivoluzione copernicana, che smentisce - e a volte con una certa asprezza di linguaggio - quanto avevano contestato a D&G sia la Procura della Repubblica che il tribunale, che aveva condannato la coppia a un anno e otto mesi a testa. Il secondo è che, quasi a freddo, il rappresentante dell'accusa tira in ballo Sergio Marchionne e la Fiat, che stanno facendo esattamente quel che hanno fatto i due sarti, portando le sedi all'estero per risparmiare sulle tasse. Il terzo è che, proprio nella medesima aula che vide Silvio Berlusconi condannato per frode fiscale, un rappresentante dell'accusa ricorda che la responsabilità penale è personale, e che essere il beneficiario finale di una operazione non è sufficiente a venire condannati se non ci sono prove di un ruolo diretto.

Ce ne sarebbe a sufficienza. Ma quel che colpisce maggiormente è una sorta di endorsement per i diritti della libera impresa, di riconoscenza verso le imprese del made in Italy, che attraversa l'intera requisitoria del rappresentante dell'accusa. Il magistrato si chiama Gaetano Santamaria, sostituto procuratore generale, ed è uno dei massimi esperti italiani di giustizia tributaria. Alla fine chiede l'assoluzione di Dolce e Gabbana «perché il fatto non sussiste». Non sussisteva la truffa allo Stato per cui vennero inquisiti inizialmente, e non esiste nemmeno la omessa dichiarazione dei redditi. I due, dice l'accusatore, avevano tutto il diritto di cedere i diritti del marchio D&G a una società con sede in Lussemburgo, la Gado, pagando così il 4 per cento di tasse invece del 45: «Come cittadino e contribuente italiano posso indispettirmi per questo risultato che mi fa tanto rabbuiare. Posso plaudire alla Guardia di finanza che accende i riflettori però posso allora aspettarmi un intervento anche su Marchionne e sulla Fiat quando verrà trasferita in Olanda».

Che la sede lussemburghese fosse una scatola vuota, dice, non è affatto vero, e la sua snellezza significa poco: «Davvero dobbiamo credere che oggi le grandi società devono avere delle sedi faraoniche? Tutte le odierne realtà che vogliono abbattere costi fissi, che non vogliono avere a che fare con dipendenti, sindacati e quant'altro, si affidano a società di servizi». E Santamaria se la prende con il collega che ha condannato in primo grado i due stilisti: «Un giudice tuttologo che pensa di entrare nel meccanismo di una società finanziaria a livello mondiale». «Dolce e Gabbana pensano in grande come si conviene all squadra di un grande gruppo italiano della moda che è presente in tutto il mondo». E la quotazione in Borsa rende ragionevole la creazione della società in Lussemburgo: «Lussemburgo ha la borsa più vivace d'Europa perché il suo regime fiscale e in grado ai attrarre capitali, e cosa vuole una società che si quota in borsa se non attrarre capitali?».
Quanto alle responsabilità personali, e dirette, dei due stilisti: «Quando ho letto che erano stati condannati a un anno e otto mesi ho pensato: “uè, allora devono averla fatta grossa” anche se mi sembrava strano che due creativi potessero occuparsi di contabilità e fatture. Poi però ho letto che nella sentenza l'accusa di essere gli amministratori di fatto cadono completamente. Non si trova alcun atto di amministrazione di alcuna società, come è giusto che sia per persone che vivono in tutt'altro mondo, che si affidano a persone di fiducia per tutti gli assetti non legati alla creatività. Si occupano di modelli, di banchetti, di sfilate, sarebbe strano che si mettano a occuparsi di fatture. Sono i beneficiati dell'operazione, è vero. Ma ti posso condannare penalmente perché sei il beneficiario? Stiamo parlando di creativi, di stilisti in tutt'altre faccende affaccendati che potevano contare su manager di tutto rispetto.

Quando ho letto questa sentenza ho detto: ma qual è la attività che hanno fatto? Nessuna. Una condanna penale contrasta con il buon senso giuridico». Gli avvocati difensori si trovano la strada spianata. Sentenza, il prossimo 4 aprile.

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