Il capitalismo, né un dio né un diavolo

Seguendo a distanza la polemica tra i filosofi che scrivono su Repubbli­ca e gli stori­ci del Corsera mi sono stranamente sentito un modera­to ecumenico e salomonico perché da­vo ragione a entrambi

Il capitalismo, né un dio né un diavolo

Seguendo a distanza la polemica tra i filosofi che scrivono su La Repubbli­ca, come Esposito e Agamben, e gli stori­ci del Corsera , come Galli della Loggia, mi sono stranamente sentito un modera­to ecumenico e salomonico perché da­vo ragione a entrambi.

I filosofi criticavano il dominio capita­lista e la religione del denaro, e io annui­vo. Lo storico riportava alla realtà, soste­nendo che il capitalismo resta comun­que il sistema economico che ha dato più benessere e sviluppo, e io ancora an­nuivo.

Ineccepibili ambedue, se permettete. Il problema è tentare di ristabilire il rango, cioè l’ordine e la misura delle co­se. Gli anticapitalisti che hanno ancora nella testa residui di marxismo non vedo­no che storic­amente i tentativi di asservi­re il mercato allo Stato, l’iniziativa priva­ta alla collettività sono stati rovinosi, per la libertà come per l’economia.

Ma il capitalismo è aberrante quando i valori di mercato diventano i valori del­la società, quando il denaro si fa misura ditutte le cose e il consumo è l’orizzonte supremo.

Cioè quando i mezzi, pur straordinari, diventano scopi di vita.

La critica al capitalismo va fatta usce­n­do dall’economia ed entrando sul piano etico ed estetico, ambientale e comuni­tario, esistenziale e spirituale.

Il risulta­to è correggere il capitalismo ma non de­monizzare la libera iniziativa e la dise­guaglianza che deriva da merito, intra­prendenza e capacità.

Lasciamo il mercato libero ma sociale regnare nell’economia; ma rifiutiamolo come guida universale e sovrana. L’uomo non è una partita Iva.

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