Catturate le belve che uccidono e stuprano

Arrestati due romeni accusati di avere ammazzato il bancario Luca Rosi e di avere violentato una donna. La banda delle rapine in villa terrorizzava l'Umbria. I banditi tornavano in Italia pensando di averla fatta franca. Il padre del giovane ucciso per aver difeso la fidanzata: "Sono bestie"

Catturate le belve che uccidono e stuprano

Perugia - La «banda delle belve», così l’avevano subita etichettata nel paese sconvolto dall'omicidio, è sgominata. Quasi completamente. Manca solo un componente - anche lui rumeno, già identificato e residente in Alta Italia - che viene ricercato pure in Romania e Spagna. Il colonnello Angelo Cuneo, già intorno alle 9 del mattino, ha recato la buona novella del duplice arresto a Bruno Rosi, il padre della vittima e alla mamma Ilvana. «Abbiamo assicurato alla giustizia gli assassini di vostro figlio», ha spiegato, abbracciandoli. Bruno Rosi ha commentato così: «Sono bestie e andrebbero assicurati alla giustizia in posti adatti alle bestie e non alle persone».
L’arresto del capo banda, il bandito dagli "occhi di ghiaccio" (color verde) e del suo complice, è avvenuto ieri mattina all’alba, a Gorizia. I due - Iulian Ghiorghita di 31 anni e Aurel Rosu, di 20 anni, residenti a Vercelli - stavano rientrando dalla Romania su un minibus Mercedes di colore rosso, che fa la spola ogni settimana tra Bucarest e Venezia-Padova. Forse ritenevano - erano rientrati in fretta nel loro paese di origine dopo il sanguinoso colpo -, che ormai in Italia le acque si fossero chetate. Ma due sottufficiali dei carabinieri di Perugia in borghese li hanno avvicinati e bloccati in un’area di servizio. E da ieri pomeriggio il capobanda e il suo tirapiedi si trovano in una cella del carcere di Capanne.
Ai due cittadini rumeni vengono addebitate, per ora, una tentata rapina a Bastia Umbra, verificatasi nel giugno scorso, la rapina con sequestro di persona e stupro del 2 febbraio a Pietramelina e la rapina finita nel sangue, con l’omicidio spietato, e pluriaggravato, di Luca Rosi, 38 anni, a Ramazzano il 3 marzo. Un assassinio particolarmente efferato perché la vittima aveva le mani legate dietro le spalle e perché gli ultimi due colpi gli sono stati esplosi contro mentre era ormai agonizzante, colpito da altri tre proiettili, sul pavimento. Il gesto di reazione (Luca era steso a faccia in giù coi polsi legati dietro le spalle e si era alzato in piedi di scatto, nel timore che volessero violentare la sua compagna) era avvenuto quando Ghiorghita aveva ordinato a Miriam Mirabassi «Tu vieni con noi».
Il caso è stato risolto in due settimane da una task force investigativa formata da uomini dell’Arma di Perugia, del Ros dell’Umbria e di Roma (la sezione «crimini violenti» del Ris). Per sostenere le accuse gli inquirenti hanno elementi che il gip definisce «fortissimi». Non solo le dichiarazioni di Catalin Simonescu, 27 anni, il basista di Pietramelina, posto in stato di fermo da alcuni giorni che ha collaborato con gli inquirenti, ma anche quelle della fidanzata di Ghiorghita, che abita a Resina e che, ignara, aveva ospitato la notte dell’omicidio di Rosi, il fidanzato e gli altri connazionali nella sua casa. Il giorno successivo, quando i suoi ospiti se ne erano andati e quando aveva saputo del brutale omicidio, aveva cercato di prendere l’aereo, a Fiumicino, per tornarsene in Romania, ma era stata fermata prima di salire sul velivolo. Lei stessa, interrogata come testimone, avrebbe confidato agli inquirenti: «Quelli sono tutti matti. Anch’io ho paura di loro». Inoltre, durante il viaggio di rientro in auto da Gorizia a Perugia (con una scorta complessiva di cinque macchine-civetta), ieri mattina Ghiorghita avrebbe ammesso: «A sparare sono stato io».


Ma al di là delle dichiarazioni informali, che se non ripetute davanti al giudice nell’interrogatorio di garanzia non avranno alcuna rilevanza, gli investigatori possono contare sul dna, estratto dal tampone vaginale della signora stuprata e comparato con il dna repertato da una scarpa che il bandito aveva perso nella tentata rapina di Bastia Umbra e con gli effetti personali sequestrati nella casa della sua fidanzata (dna risultato essere proprio del Ghiorghita); i tabulati telefonici e le celle agganciate dai telefonini dei componenti della gang nei giorni delle tre rapine; la compatibilità tra l’arma (una calibro 9x17) asportata dalla villa dello stupro con i bossoli recuperati nell’abitazione di Rosi a Ramazzano. Che dunque legano indissolubilmente l’una e l’altra rapina.

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