Ma che infanzia difficile la privilegiata Boldrini

Per fortuna non siamo cresciute con lei

Ma che infanzia difficile la privilegiata Boldrini

Ha vinto, signora Boldrini? Quando ieri, incuriositi dalla faida scaturitasi in casa sua ai tempi della sua infanzia, siamo corsi a leggere su La Stampa quale fosse l'oggetto del contendere tra lei, sua sorella e i suoi fratelli, quale fosse la vostra rosa ansia di sopravvivenza contro l'azzurra, aggressiva fetta della famiglia, siamo stati sollevati e sconcertati, nell'apprendere che si trattava di qualche stoviglia da rigovernare dopo cena. E abbiamo pensato che tanto precoce sforzo, tanta lungimiranza sociale fossero forse degni di miglior causa.

Con l'intervista rilasciata vorrebbe esortare le donne a ribellarsi fin da piccine all'odiosa, retrograda ghettizzazione di genere: le bambine aiutano in casa, i bambini possono farne a meno. E offre l'esempio del microcosmo della sua famiglia, la piccola ma gloriosa battaglia, come fulgido esempio. Racconta del vostro audace spirito eversivo che ha riportato in casa la parità dei sessi, potenzialmente sbilanciata da una mamma e un papà tradizionali che vi avrebbero confinate in una sgradita posizione di sudditanza. Invece lei e sua sorella, ribellandovi, «avete vinto» spiega soddisfatta.

Per fortuna non siamo cresciute in casa Boldrini. Per fortuna non avevamo fratelli. Per fortuna non abbiamo avuto il bisogno di iniziare a combattere a cinque anni per questioni di «genere». Noi avevamo tre cugini maschi (più grandi di noi) che riuscivano a terrorizzarci sbucando da dietro le tende all'improvviso, sfrecciando accanto alla nostra bicicletta su rombanti moto da cross, cacciandoci la testa sott'acqua in piscina, sfasciando le case delle bambole che noi avevamo pazientemente costruito. Non ci faceva piacere, ci difendevamo con delazioni alla mamma o, quando ci riuscivamo, con scomposte sessioni di pugni. Come veniva. Ci siamo spesso lamentate di quanto riuscissero ad essere stronzi quei tre con le loro moto, i loro cavalli, le tende, i nomi che finivano con la «o» (FedericO, LorenzO, FilippO) e nessuna voglia di rimettere a posto ciò che avevano rotto.

Ma certo non ci siamo mai sognate di farne una questione di genere, di domandarci perché loro fossero maschi e in cosa differissero da noi. Forse perché la mamma ci ha subito messe a nostro agio con il fatto di essere femmine, senza istigarci a lottare per rincorrere o affermare chissà cosa, come se fossimo entrate nella vita con difetto. La verità è che siamo il risultato di tante cose e tanta gente, di tutti coloro che siamo capaci di «tenere»: una madre nella pancia, un padre nella testa, una nonna tra le braccia, il ricordo di un nonno tutto intorno come un'aura spessa, un mentore sulle spalle quando i ruoli si scambiano (perché a un certo punto si rovesciano sempre) e sulle spalle non ha più la forza di tenerci lui, un cugino irrequieto.

Abbiamo dentro frasi, espressioni, scaltrezze e malinconie che sono di un sacco di gente: della gente che ci ha messi insieme così come siamo. Noi siamo un nodo fatto di tante corde, che al momento giusto però tiene.

Se avessimo passato il tempo a snaturare il nostro prossimo dall'età di cinque anni, a badare al politicamente corretto, a cercare di far lavare i piatti a nostro cugino, oggi noi, noi donne, non saremmo quello che siamo. Che, come dice Vittorio Feltri: conquisteremo la parità con gli uomini quando ne avremo acquisito tutti i difetti. E siamo sulla buona strada...


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