Settanta già liberati a Genova. Sessanta a Milano. E così via, in tutte le carceri italiane le celle si aprono e lasciano uscire un piccolo esercito di detenuti. Sono gli effetti del pasticcio che Parlamento e governo, ognuno per la sua parte, hanno combinato, nella nobile ansia di svuotare le prigioni ridotte a carnai. Una legge scritta male, e corretta prima ancora di essere approvata (con procedura inconsueta) da un decreto governativo, neanch'esso impeccabile. Risultato: da nord a sud, i giudici gridano all'indulto mascherato, il viceleader dell'Anm Vincenzo Savio dice che «questo decreto abbassa la difesa sociale», e qualcuno si spinge a ipotizzare che l' obiettivo sia come al solito salvare dalla galera qualche indagato eccellente.
Eppure, a leggerli da ignoranti, sia la legge che il decreto aggiusta-cocci, sanciscono un principio su cui sarebbe difficile dissentire: se l'imputato al momento della condanna è destinato a non finire in galera, perché avrà la condizionale o l'affidamento, non si può tenerlo in carcere preventivamente. Il carcere in attesa di giudizio deve smettere di essere usato dai giudici come una pena anticipata, come per ammissione di alcune toghe illuminate (come Giovanni Canzio, presidente della Corte d'appello di Milano) avviene spesso oggi. Ma a questo principio i firmatari della proposta di legge, già approvata da Camera e Senato, e in attesa dell'ultima rilettura a Montecitorio, hanno aggiunto un afflato ancora più garantista, contro le «recenti riforme securitarie», come le ha definite nella sua relazione la prima firmataria, la piddina Daniela Ferranti presidente della commissione giustizia. Il governo, il 26 giugno, cerca di metterci una pezza. Ma il risultato cambia poco: carcere proibito se il giudice prevede che la pena finale non supererà i tre anni; proibiti anche gli arresti domiciliari se si prevede che il condannato avrà la condizionale.
A differenza della proposta Ferranti, il decreto legge entra subito in vigore. E in tutta Italia scattano le scarcerazioni. A Milano i primi ad uscire sono i condannati dei processi per direttissima, gli autori dei furti, degli scippi, dei crimini piccoli ma odiosi che riempiono i mattinali delle Volanti (gli scippatori al dettaglio sono già stati graziati in maggio da un'altra legge umanitaria voluta dal ministro della Salute). Sessanta. Ma è solo l'inizio. Martedì prossimo i presidenti di tutte le sezioni penali del tribunale milanese si riuniranno per tirare le somme delle scarcerazioni: a uscire, in base al decreto, saranno non solo gli imputati sotto inchiesta e sotto processo ma anche i condannati in primo grado, che giuridicamente sono ancora in stadio di custodia cautelare. Ne usciranno un centinaio, solo a Milano. Quanti, in tutta Italia? C'è chi spara: diecimila. Più probabilmente, ci si attesterà intorno ai seimila: oltre il dieci per cento della popolazione detenuta, che a ieri ammontava a 57.930 carcerati.
Ad allarmare anche l'ala più garantista della magistratura è un dettaglio: non è stato inserito nel testo nulla che impedisca la scarcerazione anche dei più pericolosi, dei recidivi, di chi ha scelto come vittime gli anziani indifesi. Ciò nonostante, la linea che sembra destinata a prevalere è una applicazione letterale del decreto. La Procura di Milano si prepara a dare parere favorevole alle richieste di scarcerazione che pioveranno sui tribunali, e i giudici non potranno che adeguarsi. A meno di approfittare di quel verbo del decreto, «se il giudice ritiene»: una previsione, insomma, che basta a giustificare la permanenza in carcere.
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