Che schifo l'ironia chic dei «colleghi»

Quello che fa impressione, un bel po' impressione al di là delle notizie, è il clima, il tono. La questione Sallusti, che dovrà scontare i suoi quattordici mesi di reclusione ai domiciliari e cioè nella casa della sua compagna Daniela Santanchè da lui (...)

(...) eletta a domicilio, è stata trattata da quasi tutta la grande stampa nazionale - Corriere, Repubblica e Stampa per non dire del Fatto - col tono un po' mondano e un po' sfottente, finto ironico e incline a una certa cialtroneria. Il fatto dovrebbe far riflettere tutti, anche se la questione è stata alleggerita da Bruti Liberati che con un colpo d'ingegno e facendo appello alle nuove norme svuota-carceri, ha stabilito che per il direttore del Giornale non ci saranno le violenze fisiche legate alla carcerazione (manette, ispezione intima del corpo, il bugliolo, le sbarre) ma soltanto quel piccolo accidente che si chiama perdita della libertà. Che un direttore di giornale possa perdere la propria libertà personale per aver pubblicato, o lasciato pubblicare un articolo fatto di parole - per quanto possano le parole essere sbagliate, gravi e persino infami, false, ignobili - è una cosa che investe direttamente la questione sia della libertà personale che della libertà di stampa.
Io ho sempre pensato che per un delitto fatto di parole, quali che siano, nessuno e non soltanto i giornalisti, dovrebbe poter essere condannato alla galera. C'è una sproporzione che allarma anche la famosa Europa di cui tutti ci riempiamo la bocca («Ce lo chiede l'Europa»). La vecchia norma fascista era buona per una dittatura: i direttori devono filare diritti e chi sgarra va in galera. È vero, parole gravi e anche gravissime, spesso false o violente, sono state sempre scritte su tutti i giornali di destra e sinistra e accuse insostenibili e false vengono stampate senza un'ombra di pudore e mai chiedendo poi scusa. Ne so qualcosa io che, come presidente di una commissione parlamentare d'inchiesta mi sono visto accusare sulla grande stampa nazionale di aver arredato a Napoli un «ufficietto» dove in compagnia di agenti dei corpi dello Stato avrei forgiato documenti falsi per disonorare eminenti nomi della sinistra italiana. Quando mi rivolsi alla magistratura, fu celebrato in sordina un processo la cui sentenza sosteneva che si poteva scrivere il falso perché rientrava nel diritto di cronaca.
Dunque si potrebbe dire che ci sono due pesi e due misure, benché io non invocassi la galera ma solo il ristabilimento della verità. Poi ho visto con i miei occhi il caso del collega ed amico, nonché senatore Lino Jannuzzi, condannato a una pena detentiva per reati a mezzo stampa accumulati nel tempo e comminata negli arresti domiciliari. Così, il senatore Jannuzzi che a norma della Costituzione rappresentava in Parlamento come ciascuno di noi l'intero popolo italiano, veniva in aula accompagnato dai carabinieri - sempre gentilissimi - i quali lo prelevavano all'uscita e lo riportavano alla casa-prigione.
Sallusti vuole essere sicuro che gli permettano nella casa degli arresti domiciliari di lavorare facendo il Giornale di cui è direttore, usando gli strumenti tecnologici. Il fronte di quelli che oggi plaudono alla privazione della libertà di Sallusti sottolineando le magnificenze della casa in cui sconterà la pena (caspita: c'è persino una piscina e non è possibile escludere un barbecue), lasciano intendere, anzi dicono che questo giornalista non deve fare il direttore dalla casa-prigione, ma che debba fare il detenuto, sia pure seduto in poltrona.
E allora giova ricordare lo straordinario caso di Adriano Sofri il quale, condannato se non ricordiamo male con sentenza definitiva per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi (il cui figlio è il bravissimo direttore della Stampa di Torino, uno dei giornali che ieri trasudavano ostilità e sarcasmo) aveva il diritto di trasformare la propria cella di detenuto in una redazione da cui sfornava articoli e scritti di vario genere, tutti pubblicati all'istante, con una produzione ragguardevole per qualità e quantità. È normale tutto ciò? È davvero così divertente, o degno di sarcasmo e piccineria il caso di un giornalista che dirige un giornale d'opinione, anzi ne ha diretti due, di cui si discute anche il diritto di scrivere e diffondere parole, impaginazioni e titoli?
Il fatto è che gli stessi giornalisti, che conducono una battaglia politica, spesso esasperatamente di parte, usciti dal ring del combattimento continuano volentieri la rissa sul piano personale. Tutto ciò configura ancora una volta un Paese poco civile, come conferma il fatto che siamo i primi inadempienti di fronte alle regole europee di tutela della dignità della persona e del sistema repressivo e delle detenzioni. E i giornalisti sono così ciechi da non vedere che l'uso della galera per i colleghi politicamente avversari li riguarda direttamente perché domani può toccare a uno di loro augurarsi di avere una bella casa in cui essere chiusi a chiave.
Ricordo un altro caso in genere dimenticato. Quando Eugenio Scalfari, allora direttore dell'Espresso, e lo stesso Lino Jannuzzi che ho nominato sopra, giornalista dell'Espresso, furono condannati per gli articoli sui fatti del luglio 1964 e il cosiddetto Piano Solo, entrambi furono salvati dalla galera dal segretario del Psi Giacomo Mancini che li mise in lista e li fece eleggere, Scalfari alla Camera e Jannuzzi al Senato, affinché potessero godere dell'immunità parlamentare che allora (1968) era automatica e grazie alla quale il Pci aveva salvato dalla galera molti suoi ex partigiani che a guerra finita avevano seguitato a sparare e uccidere. Nessuno ebbe da ridire, allora. Anzi, l'opinione pubblica faceva il tifo per i giornalisti così come in America le radio libere fanno il tifo per i fuggiaschi.
Nel caso Sallusti non ci sono fuggiaschi. Il direttore del Giornale aveva già ieri pronta la borsa d'ordinanza. Ciò che invece non era previsto era il tono da pollaio che ieri mattina si poteva percepire da molti giornali, come se il caso Sallusti, ora che si può sbattere in prima pagina almeno il ritratto criminale di una piscina, fosse diventato il soggetto per un film all'italiana in cui tutti ridono e non si sa perché. La verità, peraltro visibile e banale, è che un giornalista, «delinquente incallito» per il reato di parola, viene messo sotto chiave.

La chiave sarà magari dorata, o elettronica, le luci soffuse e speriamo per lui la piscina riscaldata, ma abbiamo sotto gli occhi il caso di un giornalista che riceve sulla sua persona fisica una pena derivata da un articolo, peraltro nemmeno scritto da lui.

di Paolo Guzzanti

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