Guzzanti: "Chiederò io la grazia al posto suo"

Il presidente della Repubblica intervenga e dica qualcosa di forte contro questo atto di violenza fatto in nome della legge

Guzzanti: "Chiederò io la grazia al posto suo"

Un Paese lo si giudica secondo parametri fondamentali. Uno di questi è il principio secondo cui nessuno può perdere la libertà per avere pronunciato o scritto parole. In Russia hanno condannato a due anni di galera due ragazzine che avevano gridato «Madonna mia riprenditi Putin» e tutto il mondo ha preso atto che la Russia non dà ancora garanzie democratiche di base. In Italia fu arrestato e messo in galera Guareschi e fu un caso vergognoso e imbarazzante: il creatore di Don Camillo seguitò a scrivere dalla galera, ma l'Italia fece una pessima figura. Il direttore di questo giornale è stato condannato a quattordici mesi per le parole scritte su Libero da un altro a proposito di un caso moralmente ed emotivamente controverso. L'accusa è di non aver esercitato il controllo su uno scritto altrui. Tutti i direttori di giornale si ritrovano sulle spalle fascine di condanne per omesso controllo e vivono nell'incubo di essere prima o poi arrestati. Ma nel mondo reale non finiscono mai arrestati. Devo pensare che nel mondo meno reale del rancore politico, invece sì. Si può. La legge c'è, gli strumenti non mancano e non mancano nemmeno gli uomini. Dunque si potrebbe, in segno di progresso, reintrodurre il cavalletto per le nerbate, la gogna e quel po' di tortura che può sempre servire per chiudere un'inchiesta. Le leggi ci sono, è vero, ma in Italia tutto dipende da chi le applica. Il nostro è il Paese dell'interpretazione. E l'interpretazione dice che Alessandro Sallusti debba andare in cella e restarci per un anno e due mesi.

Mi sono chiesto come mi sentirei io se mi trovassi nelle sue condizioni. Se sapessi di dover essere condotto in una struttura di chiavistelli e di buglioli, aspettando la prima visita dello psicologo che viene in cella per accertarsi che non ti vuoi suicidare. Tu che ti occupavi di giornalismo politico, con tutta la passione anche scomposta, aggressiva, partigiana che ci mette chi fa questo mestiere con coraggio anche temerario, perché è in battaglia. Una battaglia di punti di vista, di commenti, di posizioni culturali e morali e politiche diverse ed opposte.

Sallusti ieri ha chiamato i suoi e ha detto loro che non intende chiedere pene alternative, servizi sociali e altre umiliazioni. E nemmeno la grazia perché la grazia la chiede chi si sente colpevole. Ma la questione non è se il direttore del Giornale e ieri di Libero sia o no colpevole a norma di legge dei reati imputatigli, ma stiamo parlando dei delitti e delle pene, due secoli e mezzo di Cesare Beccaria. Stiamo parlando del fatto che un uomo che organizza parole e pensieri, opinioni e inchieste, debba pagare il suo conto con la libertà personale. E perché no allora con un'oncia di carne come chiedeva Shylock nel Mercante di Venezia.

La privazione della libertà è una pena corporale. Si discute se serva a qualcosa per i delinquenti abituali. Se non sia un errore infliggerla ai tossicodipendenti, se il mondo moderno non sia in grado di trovare vie più civili per difendere la società dai cattivi soggetti. E poi usiamo questa formula ipocrita secondo cui un detenuto scontando la sua pena compie un processo di reintegrazione nella società. Il direttore del Giornale starà in una cella per quattordici mesi per meglio reintegrarsi? O per lui si configura invece la figura del castigo, della pena come espiazione dolorosa, cioè fisica, per aver scritto e lasciato scrivere delle parole?

Ricordo che Eugenio Scalfari, direttore dell'Espresso, fu condannato insieme a Lino Jannuzzi per gli articoli sul cosiddetto golpe De Lorenzo del 1964. Ma ecco che a quell'epoca, era il 1968, i due giornalisti furono sottratti all'arresto dalla provvidenziale candidatura in Parlamento loro offerta da Giacomo Mancini, segretario del Partito socialista. Non andarono i galera. Ma molti anni più tardi, nel 2007, lo stesso Lino Jannuzzi, senatore del Pdl, fu condannato per reati a mezzo stampa, cioè di parole, a una pena detentiva che scontò agli arresti domiciliari benché fosse Senatore della Repubblica. I carabinieri lo accompagnavano a votare e poi lo riaccompagnavano a casa. A me sembrava e sembra un'enormità che un rappresentante del popolo fosse costretto a legiferare in ceppi, ma quella che capita a Alessandro Sallusti non è soltanto una enormità ma una disgrazia per il principio che in una democrazia tutela la libertà di parola. D'accordo, ci sono reati, ci sono diffamazioni, ci sono legittime tutele di chi si ente offeso, tutto giusto. Ma quel che non è giusto, anzi è inaccettabile nel 2012 qualsiasi cosa sia scritta nei vecchi codici, la figura pubblica del direttore di un giornale che rappresenta un segmento di opinione cui dà voce, sia preso con la forza, legato con le manette, condotto con una procedura fisicamente abominevole e umiliante e posto in un luogo di continua umiliazione fisica e morale, perché colpevole di aver scritto o di aver lasciato scrivere sia pure la più abominevole infamia. Sallusti non chiederà la grazia. La chiedo io per lui al presidente Napolitano. E non soltanto per Sallusti. Vorrei che il Presidente che difende i principi della democrazia parlasse e dicesse qualcosa di forte come sa fare.

I Paesi in cui i giornalisti, specialmente quelli politici, vengono chiusi dietro le sbarre, non godono buona fama così come non la godono per il malcostume e la corruzione. E spero che anche il presidente Monti trovi il modo di segnalare il vulnus ai principi liberali che questo atto di violenza in nome della legge porta con sé.

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