Vale, riadattato, il vecchio scioglilingua: sopra la crisi Obama campa, sotto la crisi Obama crepa. Negli ultimi mesi il presidente degli Stati Uniti era ottimista: timidi ma evidenti segni di ripresa si stavano manifestando, lasciando intravedere la fine del tunnel. Poi il tunnel si è richiuso nel buio: il parametro più importante, il numero dei jobs, i posti di lavoro, è in netto calo dopo una ripresina promettente ma effimera. E sul numero dei jobs si regola per prima la Borsa di Wall Street. Ora la tendenza s'inverte e Obama rischia di finire sotto la panca e Mitt Romney, il candidato repubblicano, vede lo spiraglio che potrebbe illuminare una marcia lenta ma vittoriosa.
Romney è un moderato centrista meno popolare di Obama, ma politicamente non troppo distante da Obama. Come centrista dispiace all'ala aggressiva del Grand Old Party che lo appoggia con scarsa convinzione. Per far fronte a questo gap, Romney ha scelto come candidato vicepresidente Paul Ryan che è un repubblicano rivoluzionario conservatore della destra americana. Già in questo modo Romney è risalito di parecchi punti, recuperando parte degli elettori radicali del suo partito che gli avevano voltato le spalle. Ma Romney, anche con Ryan al fianco, non ha il sex appeal politico di Obama e dunque non ha speranze se non capita qualche fatto nuovo che possa far smottare gli elettori democratici verso un ritorno ai valori economici americani che Obama ha sfidato inseguendo un welfare di tipo europeo.
Ieri l'evento che potrebbe mettersi davvero di traverso sul cammino del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti: le Borse, che avevano brindato nei giorni scorsi, si sono incupite e hanno lasciato circa un punto percentuale sul terreno su entrambe le sponde (...)
(...) dell'Atlantico. Wall Street perde e subito anche Milano lascia sul terreno poco meno dell'uno e mezzo. Motivo? Sfiducia nella ripresa americana.
Negli ultimi due giorni Obama aveva dichiarato che gli Stati Uniti rischiano di farsi inghiottire dal gorgo della crisi europea, ed ecco che ci troviamo di fronte a un'Europa minacciata dal gorgo americano. Dove sia nata la crisi, se in Europa o in America, è questione di lana caprina: in ciascun continente sono venuti al pettine i nodi decennali. In America la crisi delle banche e dei mutui, la grande bolla speculativa che è scoppiata subito dopo in Europa colpendo con la sua peste Regno Unito e Spagna; in Europa la crisi del debito, dell'eurozona, della Grecia che rotola verso il default, dei Piigs con due «I» (Irlanda e Italia) che si affannano dietro le riforme strutturali. Wall Street ha detto che crede pochissimo nella capacità europea di affrontare la crisi e ha chiuso in ribasso con le Borse europee. La sfiducia è gemellata e reciproca: il presidente della Fed di St Louis, James Bullard ha detto alla Cnbc di non credere nella capacità degli europei di risolvere la crisi e subito le Borse delle due sponde dell'Atlantico si tirano l'un l'altra sul fondo dell'oceano come naufraghi colti dal panico. Chi cerca di rimettere insieme i cocci del disastro sulle due sponde dell'Atlantico spera nelle iniezioni di liquidità della Fed e nei nuovi piani anticrisi della Bce. Fra questi, sembra che ci sia anche la decisione, pericolosa, di lasciar affondare la Grecia con una pietra al collo negandole i tempi supplementari richiesti da Atene: Wolfgang Schaeuble ha pronunciato la sentenza di morte dicendo che «dare più tempo non è la soluzione ai problemi». Come è noto questo atteggiamento è totalmente avversato da Italia e Francia secondo cui far cadere la Grecia, che vale il 3 per cento dell'Europa, significa far venire giù tutto il castello delle carte.
In America la crisi dei posti di lavoro è certificata dal termometro dei sussidi di disoccupazione la cui richiesta è cresciuta di quattromila unità in una sola settimana, peggior dato assoluto da anni: le richieste di sussidio sono ormai poco meno di 400mila. Paradossalmente, in America si sta intanto erodendo la classe media che sostiene Obama, a vantaggio della classe più ricca e soltanto in minima parte della classe più povera. I ricchi, per tradizione e buoni motivi fiscali, votano repubblicano. Come se non bastasse, i cinesi sono scatenati sul suolo americano e hanno comprato da gennaio, ad oggi le aziende cinesi hanno concluso operazioni negli Usa per 7,8 miliardi di dollari, avviandosi al dato record del 2007 pari a 8,9 miliardi. Ciò provoca ulteriore risentimento verso la Casa Bianca accusata di non opporsi efficacemente alla penetrazione sul suolo americano dello stesso Paese che possiede in cassaforte la maggior parte del debito americano.
Tutto ciò scompagina l'assetto di stabilità che aveva messo il vento in poppa alle vele di Obama, a due mesi e mezzo dalle elezioni.
di Paolo Guzzanti
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