Non c'è niente da festeggiare. La decisione della Consulta di «blindare» il risultato del referendum sulla liberalizzazione dell'acqua (non «privatizzazione», perché l'acqua è un bene inalienabile e indisponibile, e su questo inganno il comitato referendario ha costruito la sua fortuna...) è un altro macigno per la crescita del Paese. Per due motivi: liberalizzare il settore idrico è l'unico modo per sbloccare i miliardi di euro necessari a rimettere in sesto un sistema che fa letteralmente acqua. Perdiamo fino alla metà dell'acqua per una rete da 327mila km fatiscente, ma le famiglie italiane spendono 6 miliardi di euro l'anno in bollette. I Comuni e gli enti locali però non hanno i soldi necessari per farlo, e dovrebbero rivolgersi ai privati attraverso meccanismi di gara, secondo le regole di mercato europee. Non certo tramite i cosiddetti affidamenti «in house» come adesso. Perché le mani dei privati sull'acqua ci sono già, con le «sette sorelle» dell'oro blu come A2A, Iride, Enia, Hera, Acegas-Aps e Acea e Acquedotto Pugliese (una Spa controllata dalla Puglia di Nichi Vendola), tutte ex municipalizzate «rosse» quotate in Borsa durante i governi di centrosinistra grazie allo sconto fiscale che oggi l'Unione europea rivuole indietro perché «aiuto di Stato». L'acqua dunque è già «privatizzata» ma nonostante i 2 miliardi di ricavi nessuno investe. E grazie al referendum nessuno investirà più.
Il secondo «guaio» è che l'altolà alle liberalizzazioni previste dall'articolo 4 della Finanziaria-bis del 2011 rischia di ricadere a pioggia anche sulle le successive modifiche, come quelle del decreto «Cresci-Italia» del governo Monti. Riportando sempre più indietro le lancette dell'ora della crescita. Non c'è niente da festeggiare...- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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