il commento 2 Questo Paese nonostante tutto fa ancora gola

di Claudio Borghi

Sembra di risentire aria di «Fate Presto», l'invocazione strillata a caratteri cubitali dalla prima pagina del quotidiano della Confindustria per invocare quel Monti che invece era meglio se avesse fatto tardi. In mancanza di pungolo da spread, ecco che il nuovo spauracchio diventa la necessità di «un governo stabile per attirare gli investimenti». Ieri ci ha pensato Marchionne a minacciare ritardi nei piani di sviluppo, facendo eco a Montezemolo che il giorno prima aveva sentenziato che l'«instabilità del paese significa totale paralisi». Eppure non sembra che tutto sia fermo: anzi, gli appetiti degli investitori esteri nei confronti di pezzi pregiati della nostra industria non sono mai stati così evidenti e anche gli investimenti «greenfield», cioè in nuove iniziative, non mancano: vedi il caso Ikea a Milano. Ci sarebbe la coda per accaparrarsi a prezzi di saldo i nostri «campioni nazionali» come Eni e Finmeccanica così come, senza aspettare troppo, General Electric non ha esitato due mesi fa a sborsare oltre tre miliardi per impossessarsi di un'eccellenza tecnologica come la Avio. E poi i cinesi di Changi che non si sognano nemmeno di disinvestire da Gemina (Aereoporti di Roma) così come i francesi di Lvmh, ben contenti di investire 4 miliardi per mettere le mani sulla preziosa (in tutti i sensi) Bulgari. Occorre però capire quali investimenti ci fanno bene e cosa comporti l'instabilità. Consideriamo il caso Ikea: l'espansione internazionale è diretta conseguenza degli errori dell'Europa. L'afflusso di capitali in Svezia, protetta dalla sua moneta indipendente, è stato enorme, tanto da far dichiarare alla sua Banca Centrale (prima al mondo) un regime di tassi negativi per i depositi. Logico che questi denari «regalati» in qualche maniera debbano essere reinvestiti. Prima di preoccuparci di «attirare gli investimenti esteri» che a tutti gli effetti rappresentano un debito e che, come abbiamo visto, volendo non mancherebbero, sarebbe prioritario impedire la fuga dei capitali dall'Italia e mettere i nostri imprenditori in condizione di lavorare e investire. Nell'infausto anno e mezzo del terrore fiscale (dall'estate del 2011 in avanti) secondo il Fmi hanno lasciato l'Italia oltre 250 miliardi di euro. Ovvio: nessuno immagina di investire senza credito e con lo spauracchio di tasse patrimoniali o ulteriori inasprimenti fiscali da applicare in aggiunta a livelli impositivi già da record.

Per questo motivo la prospettiva di un parlamento immobilizzato non ha finora terrorizzato nessuno, tranne i delusi che aspettavano un altro po' di cura Monti-Bersani per raccattare i cocci. L'ottimo sarebbe altro ma per gli investimenti forse meglio un parlamento paralizzato di uno che prende decisioni dannose.

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