Competitività, l'Europa boccia anche la Lombardia

Competitività, l'Europa boccia anche la Lombardia

«Ma 'ndo vai se la banana non ce l'hai?». Dall'avanspettacolo zeppo di doppi sensi all'economia a senso unico, quello del ritornello ossessivo-recessivo, il passo può essere breve. Brevissimo. Soprattutto se si viene a scoprire che la Lombardia non fa più parte del club della cosiddetta «Banana blu, la dorsale economica doc simile appunto al frutto tropicale (il colore rimanda invece a quello della bandiera europea) che collegava - via Benelux e Baviera - la grande Londra alla nostra regione più produttiva.
Insomma: abbiamo perso l'unico bollino d'eccellenza ancora rimasto, la sola medaglia di caratura internazionale da appuntare al petto del nostro sfilacciato tessuto economico. Un'umiliazione per l'homo faber lumbard inflitta dall'ultimo rapporto Ue sulla competitività, da cui è però soprattutto l'Italia a uscire a pezzi, sempre più inghiottita verso la parte estrema della classifica. Le cifre raccontano già tutto: sui 262 posti della graduatoria, la Sicilia occupa il 235esimo, e il grafico qui accanto è una perfetta sintesi della nostra situazione; la Lombardia, la prima tra le regioni italiane, non rientra neppure nella top 100 scivolando mestamente dal 95esimo al 128esimo gradino, a distanza siderale dalle prime della classe (olandesi, inglesi e svedesi). Colpa di Mario Monti, attacca il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, di una «linea basata soltanto sul rigore e sull'aumento della pressione fiscale, che ha penalizzato il Nord e, in particolare, la Lombardia e il suo sistema produttivo».
Più in generale, il rapporto è «una fotografia impietosa dello stato delle regioni italiane. Di come il Centro-Nord abbia perso competitività e si trovi in difficoltà - fanno rilevare fonti europee -. E l'indicatore, seppure non sia basato su dati freschissimi (2010-2011-2012) è uno strumento utile per preparare la nuova programmazione». Non a caso, nonostante i tagli del budget Ue 2014-2020, l'Italia è riuscita comunque a strappare 29,238 miliardi, più o meno una cifra analoga al passato, proprio perché le sue regioni, anche le più sviluppate, hanno problemi.
Nulla in fondo di cui stupirsi, se solo si ricorda che la Penisola, rispetto ai livelli pre-crisi, ha perso circa 8 punti di pil e non è ancora uscita dalla recessione; che il tasso di disoccupazione veleggia sopra il 12%, con punte di quasi il 40% tra i giovani; che le aziende, vuoi per un accesso al credito bancario complicato come una corsa a ostacoli, vuoi per una pressione fiscale insostenibile, hanno praticamente smesso d'investire e, dunque, di fare impresa. Poi, nel calderone possiamo buttare pure le riforme strutturali mai fatte e quelle nate male o pasticciate, ma è tutto il «sistema Italia» a mostrare falle. Messe a nudo dal lavoro di cesello della Commissione Ue. Che, come è ovvio, guarda alla capacità delle imprese di stare sul mercato, espandersi e fare profitti.

Ma un occhio viene posto anche su altro: dalla qualità delle istituzioni, alla stabilità macroeconomica; dalle infrastrutture al sistema sanitario; dal grado dell'istruzione all'«efficienza» (università, mercato del lavoro, eccetera), fino all'«innovazione» intesa anche come livello tecnologico.
Insomma: da come l'Italia è messa, per risalire la china serve uno sforzo titanico. Quasi come raddrizzare una banana.

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