Guarda il dipinto sulla copertina dell'ultimo catalogo della Ketterer Kunst, celebre galleria d'arte di Monaco di Baviera, appena arrivato per posta: «Cazzo, ma questo è mio!». A pagina 14 c'è la descrizione: olio su tela di Gabriele Münter, datato 1908, raffigurante la casetta rossa di Murnau am Staffelsee, Alpi bavaresi, dove in quell'anno la pittrice tedesca trascorse per la prima volta le vacanze col suo amante e maestro Vasilij Kandinskij. «È proprio mio!». Stimato 112.500 dollari, aggiudicato per 205.875, poco meno del doppio. «E pensare che io l'avevo comprato nel 1988 per 30 milioni di lire...». Ogni giorno una stilettata. «Ho visto che a New York hanno appena venduto per 10 milioni di dollari un Paul Klee che a me era costato 250.000 euro».
Non c'è niente da fare: ovunque volga lo sguardo, Paolo Dal Bosco vede qualcosa di bello e di suo. O, perlomeno, che fu suo. Lo definiscono consulente d'arte, mercante d'arte, collezionista d'arte, ma forse la qualifica che gli si attaglia di più è quella di grossista d'arte. Da quasi mezzo secolo è al centro delle compravendite più clamorose. L'ultima, che rischia di catalogarlo a vita, lo ha visto trattare col suo cliente Calisto Tanzi ed è andata a rimpolpare gli atti del processo Parmalat: ne è uscito patteggiando un anno e mezzo di pena e una sanzione di 250.000 euro, «più 200.000 di un quadro che era mio e non mi è stato più restituito».
Intollerabile offesa per chi, come Dal Bosco, ha avuto fra le mani parte della collezione privata di Nelson Rockefeller, fatta di Picasso, Modigliani, De Chirico, Giacometti, Brancusi, Warhol, Calder, Kline, Pollock, Gorky. «Pensi che nel 1938 il magnate chiamò Henri Matisse e Fernand Léger a imbiancargli il suo appartamento di Manhattan affacciato sulla Quinta strada. Dico sul serio: aveva fatto incollare le tele direttamente sulle pareti e i due maestri francesi furono costretti a cimentarsi in loco con i colori a olio. Quando Rockefeller rinunciò alla casa, le opere furono staccate e incorniciate. Mi assicurai i sei murali di Léger che decoravano il soggiorno, il più grande lungo quasi 3 metri e alto 2. Ma, se devo essere sincero, ebbi l'impressione che, trattandosi di opere astratte, i pezzi di tela strappati dal muro fossero stati tagliati per creare altrettanti capolavori di varie misure». E non solo di Rockefeller: anche di William Randolph Hearst, il proprietario del San Francisco Examiner, morto nel 1951, che ispirò a Orson Welles la figura del cinico editore Charles Foster Kane nel film Quarto potere. «Io non so se il vero Hearst avesse la passione financo per le snowball, le sfere di cristallo con dentro la neve, tipo la Rosabella che Citizen Kane invoca sul letto di morte. So però che s'era fatto costruire un tratto di ferrovia per trasportare fino al castello dove viveva le opere d'arte che acquistava in giro per il mondo. Attraccava con la sua nave in Marocco, in Grecia, in Italia, sbarcava e comprava tutto il comprabile. Nel 1941 regalò a vari istituti religiosi 21.000 casse di reperti che alimentarono il mercato delle aste per almeno tre anni. Io mi accorsi che fra questi c'erano otto affreschi del XVI secolo, eseguiti dal bellunese Antonio da Tisoi, fatti strappare da Hearst in un edificio del Padovano. Se ne conoscevano solo due al mondo, gli altri erano andati persi nel bombardamento di Dresda. Li acquistai e li feci vedere al critico Federico Zeri e al professor Mauro Lucco dell'Università di Bologna, già ispettore storico dell'arte presso la Soprintendenza del Veneto. Erano autentici. Oggi si trovano nella sede della Confindustria di Belluno».
Fino a pochi anni fa Dal Bosco viveva fra Trento, dov'è nato nel 1937, e New York o Londra, dov'era assiduo frequentatore delle più importanti aste di Christie's e Sotheby's. Aveva clienti in tutto il mondo. Un giorno portò un Marino Marini a Rudolf Maag, classificato dal mensile elvetico Bilanz fra le 300 persone più ricche della Svizzera, con un patrimonio personale di 1,5 miliardi di franchi che lo metteva alla pari con l'Aga Khan e gli eredi Niarchos. «Scese in strada, guardò il Cavallo adagiato nel portabagagli della mia auto e disse: Va bene, me lo porti su». Come incassare un miliardo di lire in meno di un minuto.
Adesso ha un po' rallentato. Senza però rinunciare al suo pallino per le grandi mostre. Ne organizzava una decina l'anno. Memorabili quelle su Pablo Picasso che fra il 2001 e il 2005 portò a Macao, a Pechino, a Shanghai, a Chengdu e in altrettanti capoluoghi della Cina. «Io temevo il flop e chiedevo rassicurazioni alle autorità locali: ma siamo sicuri che si tratti di città importanti, con almeno mezzo milione di abitanti? Non si preoccupi: la più piccola ne fa oltre 10 milioni, fu la risposta». Risultato: un milione di visitatori paganti per ammirare 256 delle 500 opere del mostro sacro spagnolo che Dal Bosco ha collezionato nel corso degli anni. «Ora posso ben dirlo: ho fatto conoscere Picasso ai cinesi».
Ma il suo orgoglio è la rassegna che dal 1996 tiene in Sardegna, a Trinità d'Agultu, un paesino di 2.000 abitanti della Gallura, noto in precedenza solo per aver dato i natali ad Angelo Sotgiu, l'ex biondo dei Ricchi e Poveri. Ogni anno, quando il consulente d'arte trentino si trasferisce lì per le vacanze estive, porta con sé un po' dei suoi capolavori e li espone in chiesa, per la gioia del parroco don Gianni Sini. Ha raccontato la storia dell'Esodo biblico con le opere di Marc Chagall. Ha presentato la Divina Commedia secondo Salvador Dalí. Ha dedicato retrospettive a Rembrandt, ad Albrecht Dürer, a Joan Miró, all'immancabile Picasso, ai maestri del Cinquecento. «Quest'anno tocca alle sculture di Henry Moore. È bello vedere i fedeli che la domenica partecipano alla messa dentro una galleria d'arte».
Quando ha conosciuto Calisto Tanzi?
«Nel 1990. Volevo vendergli qualcosa da regalare per Natale ai suoi clienti più importanti. Mi ha convocato a Parma e da allora sono diventato il suo consulente. Tanzi possedeva già dei quadri, ma i più belli, Monet, Manet, De Chirico, Kandinskij, glieli ho procurati io».
Gli ha venduto anche tele di Gauguin, Van Gogh, Pissarro e Degas. La Guardia di finanza ha sequestrato a Tanzi opere d'arte per un valore di almeno 28 milioni di euro.
«Sì, ciao, 100 milioni, 70 milioni, 50 milioni... Tutte cazzate sparate da critici d'arte e direttori di museo che non hanno mai partecipato a un'asta in vita loro. La verità è che quelle opere valgono 2 milioni e mezzo di euro. Basta andare a vedere che cosa le ho pagate a Sotheby's e Christie's, ci sono le fatture, che trovano il corrispettivo negli assegni che mi ha dato Tanzi. Una scogliera di Monet è stata valutata 10 milioni, quando invece l'avevo comprata per 1 milione».
Report ha picchiato duro su di lei.
«Appena ho sentito le cifre folli in circolazione, mi sono rivolto a un amico giornalista che lavora all'Ansa, il quale ha cercato di mettermi in contatto con la conduttrice Milena Gabanelli. Ma s'è negata al telefono, perché aveva già pronto lo scoop cucinato a modo suo da mandare in onda la sera. Ci sono Monet che costano 100 milioni di euro, altri che non valgono più di 1 o 2. Bisogna vedere la qualità dell'opera».
Il settimanale Oggi l'ha immortalata mentre aiutava il proprietario della Parmalat a caricare in auto un quadro imballato, per sottrarlo alla giustizia.
«Quel quadro è mio. Semmai è la giustizia che lo trattiene indebitamente. Si tratta di un disegno di Miró che Tanzi aveva regalato a una delle figlie. Io ebbi l'incarico di venderlo per 200.000 euro e portai i soldi all'imprenditore. Più rivisti né soldi né quadro».
Com'è diventato mercante d'arte?
«Per caso. Negli anni Sessanta vendevo elettrodomestici. A Milano rifornivo il Negozio dell'innovazione, in corso Italia. Nel suo ufficio il direttore teneva appesi un sacco di De Pisis e altri quadri d'autore, molti dei quali erano in vendita. Provai una certa invidia, perché, al momento di sposarmi, insieme con i mobili mi ero potuto permettere l'acquisto solo di due stampe da appendere in casa, i girasoli di Van Gogh e una donna col collo lungo di Modigliani. Così cominciai ad accompagnare in quel negozio un amico avvocato di Trento interessato a comprare qualche tela. Subito dopo conobbi il gallerista Renzo Cortina, che mi presentò la figlia di Picasso, Paloma. E a Rovereto, dove nel frattempo mi ero trasferito con la famiglia, feci amicizia con la vedova del pittore Fortunato Depero, Rosetta. Il resto è venuto da sé».
Che cosa l'ha indotta a collezionare mezzo migliaio di opere di Picasso?
«La filosofia del collezionista è molto semplice: prima compra e poi vende per migliorare la collezione. Di Picasso sono uno dei pochi al mondo a possedere tutta la serie dei Saltimbanchi, 14 fra acqueforti e puntesecche realizzate fra il 1904 e il 1905, incluso Il pasto frugale. Ho anche il Ritratto di Dora Maar, un disegno a colori che non venderei mai. Se però mi offrissero l'omonimo olio su tela custodito al Musée national Picasso di Parigi...».
Chi è il maggior collezionista d'Italia?
«Era Achille Maramotti, il fondatore della Max Mara morto nel 2005, che però non fu mai mio cliente. Gli poteva stare alla pari solo Gianni Agnelli, dal quale acquistai alcune opere che erano nella sua residenza parigina, quando decise di chiuderla».
Che genere di opere?
«Un Mao Tse-tung di Andy Warhol, un violino di Arman e Il pugile scolpito da Marino Marini nel 1933 che oggi si trova al Mart. Le opere più belle custodite nel Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto sono quelle che ho venduto io, da Arturo Martini ad Alberto Savinio».
Quali grandi artisti ha conosciuto di persona?
«Da qualche parte ho una foto di Andy Warhol che schizza un disegno per mia figlia Elisabetta. Sono stato molto amico di Édouard Pignon, che per un trentennio fu intimo di Picasso, della cui casa era l'unico ad avere le chiavi. Con molti pittori, come Renato Guttuso ed Ernesto Treccani, trattavo direttamente e mi toccava pure tirare sul prezzo. Sono dei mortali anche loro».
Ce n'è uno per il quale farebbe pazzie?
«Ne farei mille di pazzie. Per esempio mi piacerebbe avere un quadro di Jackson Pollock, fra i massimi esponenti dell'Espressionismo astratto. Ma sono tele che costano dai 12-15 milioni di euro in su e sul mercato ce ne sono pochissime».
Come si fa a essere sicuri dell'autenticità di un'opera?
«Ci sono tanti di quei bidoni in circolazione, soprattutto nella pittura antica. Ma se lei va da Sotheby's e chiede di vendere un quadro importante, le stendono un tappeto rosso. A quel punto la valutazione della casa d'aste diventa una garanzia. Ho seguito in prima persona la vicenda di una tela del Correggio acquistata a Londra, portata in Italia, celebrata sui giornali, autenticata dal famoso critico dell'arte Federico Zeri. Be', non era un Correggio. Sempre a Londra, sul finire dell'Ottocento, un gallerista voleva vendere un Raffaello a un suo famoso cliente americano, il banchiere John Pierpont Morgan, fondatore dell'attuale JPMorgan Chase. Il gallerista disse a Morgan: Molti sussurrano che questo quadro sia del Ghirlandaio, ma io e lei sappiamo che è di Raffaello Sanzio. Il banchiere replicò: Me lo incarti».
Ci sono molti falsi in giro?
«Un tempo ce n'erano molti di più. Oggi non occorre imitare le tele famose, perché i mass media creano dal nulla artisti che pretendono e fanno guadagnare un sacco di quattrini, vedi Damien Hirst».
Che cosa pensa di Lucio Fontana e dei suoi tagli?
«È stato il più grande artista del secolo scorso».
De gustibus...
«Dal 1500 i pittori hanno vissuto di rendita. Poi è venuto Fontana che ha chiesto: Avete finito di copiarvi?. Se non c'era uno che tagliava la tela, l'arte sarebbe ancora al palo. È stato un grandissimo, Fontana, non un grande».
Comprerebbe la Merda d'artista di Piero Manzoni?
«Sì. Non mi piace passare per un intellettuale. Ma ci voleva del coraggio, nel 1961, per sigillare in una scatoletta di latta 30 grammi delle proprie feci. Fu una provocazione intelligente lanciata a noi collezionisti: se voi comprate tutto, finirete per comprare anche la mia merda in barattolo. E così è andata».
Che cos'è l'arte?
«L'appagamento del possesso. Avere qualcosa che un altro non ha. Un sentimento egoistico, ma anche molto umano».
Quindi lei è un grandissimo egoista.
«Sì. Ma ho espiato costruendo a Watamu, in Kenya, una scuola per 90 alunni».
E perché l'ha fatto?
«La prima volta che mi trovai laggiù in vacanza, dieci anni fa, chiesi al cameriere: hai bambini? Sì, mi rispose. E vanno a scuola? No. Come mai? Non c'è la scuola. Lei che cos'avrebbe fatto al posto mio?».
(606. Continua)
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