La borghesia è avida e corrotta. Le zone industriali del Nord Italia sono un deserto morale in cui dominano il culto del denaro e il disprezzo per gli immigrati. Gli imprenditori e i professionisti sono tutti quanti evasori. I ricchi sono «arricchiti» volgari e pacchiani.
Questo elenco di vieti luoghi comuni è la sostanza di una parte non irrilevante del nostro cinema e della nostra letteratura. Non stupisce dunque trovarne alcuni nell'intervista rilasciata da Paolo Virzì a Natalia Aspesi e pubblicata ieri su Repubblica. Il regista, «torchiato» dalla giornalista, ha presentato il suo nuovo film intitolato Il capitale umano, da giovedì nelle sale. Sceneggiata con Francesco Bruni e l'onnipresente Francesco Piccolo, la pellicola è tratta dall'omonimo romanzo di Stephen Amidon, ambientato in Connecticut. Virzì, scartati gli Stati Uniti, ha optato per la provincia italiana: la Brianza. Vicino a Milano, sede della Borsa, si intrecciano quindi le storie di un immobiliarista fallito (Fabrizio Bentivoglio) e di uno speculatore finanziario (Fabrizio Gifuni). Capitalisti, e aspiranti tali, sono pronti a travolgere ogni valore e a dare un prezzo a qualsiasi cosa, anche alla vita altrui. La rovina è dietro l'angolo.
Si potrebbe osservare che Il capitale umano parla di un altro pianeta e arriva fuori tempo massimo. Finanzieri e immobiliaristi non sono all'ordine del giorno. Basta dare una occhiata alla cronaca, perfino a quella di Repubblica. La crisi soffoca anche la borghesia del Nord. Gli imprenditori, piccoli e talvolta grandi, si destreggiano con coraggio, senza poter contare sull'aiuto dello Stato e delle banche. Qualcuno, vinto dalla disperazione, si suicida. Le piazze e i caselli autostradali sono presidiati da movimenti di protesta inediti e non sindacalizzati, in cui non è raro vedere l'operaio accanto al «padrone», il bracciante in compagnia del camionista. Sono fenomeni interessanti che non interessano a registi e scrittori. Per carità. Ognuno gira il film che vuole, adottando il punto di vista che crede opportuno. Però, chissà perché, nessuno pensa di dover dare uno sguardo obiettivo alla parte produttiva del Paese. Da lì, secondo i nostri artisti, incatenati a vecchi schemi ideologici, vengono solo messaggi desolanti.
Torniamo all'intervista e ai luoghi comuni. Perché la Brianza, chiede la Aspesi? «Cercavo una atmosfera che mi mettesse in allarme, un paesaggio che mi sembrasse gelido, ostile e minaccioso» risponde Virzì. La Brianza ostile e minacciosa? Il regista dice di avere girato a Osnago, Varese e Como, «città ricchissima che esprime il degrado della cultura con quel suo unico teatro, il Politeama, chiuso e in rovina». Il Politeama «ha una parte importante nel film, come simbolo di un inarrestabile degrado e sottomissione al denaro». Come simbolo del degrado della cultura (a circoletto) e della sottomissione (delle istituzioni ai prevaricatori) pare più adatto il Teatro Valle di Roma. Tra l'altro a Como, che era «ricchissima» 15 anni fa, oltre al Politeama, c'è il Teatro Sociale funzionante a pieno regime. Ma cosa importa? Ciò che conta è essere fedeli ai cliché, e su questo Virzì non transige. Ispirato dalla Aspesi, il regista si lancia in una lezione all'Italia intera, e al celeberrimo ceto medio: «Mi pare che gli italiani abbiano pochissimo senso civico e che la nostra borghesia sia molto egoista e carente verso i bisogni degli altri». La borghesia in questo non è diversa dalle altre classi sociali, se proprio dobbiamo ragionare ancora in questi termini. In attesa di film su proletari incarogniti e nobili odiosi, il cinema scodella sempre le solite zuppe sui borghesi che, per quanto danarosi, si rivelano sempre piccoli piccoli.
In questa intervista sembrerebbe mancare qualcosa per completare il quadro.
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