Il disastro del Pd ora rafforza Renzi E Letta si infuria

Dopo il pasticcio in direzione si sfalda lo stato maggiore. Il premier: "Così il partito sta destabilizzando il governo"

Il disastro del Pd ora rafforza Renzi E Letta si infuria

Dopo il blitz anti Renzi finito in un disastro militare, lo stato maggiore antirenziano del Pd cerca di rimettere insieme i cocci ma litiga al suo interno. Epifani e Bersani contro Franceschini, Letta infuriato con tutti perché «così il Pd sta diventando il fattore di destabilizzazione del governo». E stavolta non certo per colpa di Renzi.

In direzione non si è votato (è stato Letta il primo a fiutare l'aria e a imporre la frenata, chiedendo di rimandare) perché il segretario e i suoi sponsor rischiavano seriamente di andare in minoranza. «Poteva finire 60 a 40», dice Paolo Gentiloni. Praticamente una sfiducia al segretario, e del tutto inaspettata, visto che erano entrati in direzioni sicuri di portare a casa il risultato e di sbaragliare i renziani. Il risultato peggiore, i congiurati anti sindaco ne sono consapevoli, è che grazie ai loro errori ora il primo cittadino di Firenze è molto più forte di ieri, nell'opinione pubblica e nella base stessa del partito, in rivolta contro l'apparato romano. «Forse dovrei pagarli, se lavorassero per me non potrebbero fare di meglio», se la ride lui. Dietro l'ironia però, in casa renziana, c'è anche preoccupazione e amarezza: «Con questi - dice un colonnello del sindaco - non c'è patto, accordo o gentlemen's agreement che tenga, il loro unico obiettivo è impedire a Matteo di prendersi il partito e per ottenerlo sono pronti a tutto». Non solo a «barare sulle regole e sulle date e a fare il gioco delle tre carte sullo statuto», ma perfino, è il sospetto di più d'uno di loro, a far saltare il governo delle larghe intese per andare al voto anticipato, lasciando che Renzi gareggi per la premiership (contro Letta) ma conservando per loro il timone del partito.

Epifani e Bersani danno tutta la colpa del caos in cui sono finiti venerdì sera a Dario Franceschini, giurano che sia stato il ministro per i Rapporti con il Parlamento a decidere uno «strappo non concordato» annunciando che le Primarie devono essere chiuse ai soli iscritti. Non che non lo pensino anche Epifani e Bersani, che meno gente vota e più difficile diventa la partita per il sindaco di Firenze, che non controlla la nomenklatura sul territorio, specie a Sud. «Provate a chiedere l'elenco degli iscritti Pd di Napoli o di Avellino», suggerisce beffardo il renziano Rughetti, «scoprirete che non esiste. Il territorio, là, si controlla così». Ma «Dario è stato troppo brusco, e soprattutto ha collegato il diritto di voto alle Primarie per i soli iscritti non al modello di partito che vogliamo, ma alle necessità di sopravvivenza del governo», spiega Cesare Damiano, schierato con Epifani. Argomentazione sbagliata, in quella sede. Tanto più che il segretario, poco prima, aveva lanciato più di una frecciata al governo, tornando tra l'altro a chiedere un «passo indietro» di Alfano.


Nei prossimi giorni, in un clima tesissimo e di totale sfiducia reciproca, si riapriranno le trattative per arrivare alla direzione del 31 luglio (Cassazione permettendo) con un minimo di accordo su cui votare, ma non sarà facile. Epifani già ha rinculato: non solo gli iscritti ma anche gli «aderenti» potranno votare. Ma l'intesa è ancora lontana.

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