Il "Divo" della Repubblica non scalò mai Colle e Dc

Non è stato capo dello Stato, segretario del suo partito o presidente delle Camere. Anche perché era già l'icona delle istituzioni e l'immagine della Roma dei Palazzi

Il "Divo" della Repubblica non scalò mai Colle e Dc

Giulio Andreotti non fu mai presidente della Repubblica né segretario della Dc, non fu mai presidente del Senato o della Camera, non fu mai sindaco o vescovo di Roma, semplicemente perché lui fu l'anima e l'icona della Repubblica italiana, della Dc, delle due Camere riunite in un solo emiciclo, volgarmente denominato gobba; fu il simbolo vivente della Roma di potere e sacrestia, figlio di Santa Romanesca Chiesa. Andreotti fu democristiano avanti Cristo, rappresentò la salvezza e la dannazione senza mai passare per la confessione. Ebbe sette vite, come i gatti e i colli di Roma, e infatti guidò sette governi brevi; ma rappresentò l'eternità in politica, l'immortalità al potere, l'inamovibilità inquietante ma rassicurante.

Non so se fu davvero, come ora si dice, uno Statista, se per statista non s'intende solo un campione di staticità. Lo fu più Fanfani, oltreché De Gasperi. Non fu nemmeno uno stratega e un teologo del Potere, come fu Aldo Moro. Andreotti ebbe più senso del potere che senso dello Stato, della curia più che della nazione, della sacrestia più che del pulpito. Fu minimalista, antieroico e antidecisionista, rappresentò l'italianissima trinità Dio, pasta e famiglia, sostituendo la patria con l'amatriciana. Guidò l'Italia nelle vacanze della storia. Il suo maggior ideologo fu Alberto Sordi. Fu vicino ai suoi elettori, attento alle loro richieste, alle loro cresime e ai loro matrimoni, rispecchiò gli umori della gente, fu sobrio, trasparente e criptico al tempo stesso.

Per decenni anch'io lo considerai l'Incarnazione malefica della Medusa, del Potere che pietrifica tutto, e a volte cementifica tutto. Ma quando nella sua Ciociaria ai tempi di Mani Pulite, Romano Misserville organizzò un processo spettacolo ad Andreotti, fece schifo e rabbia vedere il gelo nei suoi confronti di molti suoi galoppini del passato, che pure gli dovevano molto. Ma lui restò a sua volta gelido e inespressivo. Aveva le emozioni di un frigorifero. Mai uno sfogo.
Andreotti non ha lasciato grandi riforme di Stato e grandi imprese pubbliche, ma un metodo, uno stile, una visione della vita, fondata sul primato assoluto della sopravvivenza, personale e popolare, alle intemperie della storia. Fu moderato fino all'estremo e da cattolico fu il più allergico ai paradisi e alla santità. In politica estera fu molto mediterraneo e papalino e poco filoatlantico e filoisraeliano, come del resto anche Moro e Craxi. Quando lo accusarono di essere a capo della Cupola di Cosa Nostra, la sua salvezza fu che l'accusarono di tutto; così, elevato a Male Assoluto, fu assolto da ogni colpa anche verosimile. Volevano infliggergli l'ergastolo ma alla fine fu lui a infliggere l'ergastolo all'Italia, diventando senatore a vita.

È sopravvissuto a tutti, alla Dc e ai suoi numerosi bracci destri (aveva molte chele), alla destra e alla sinistra, ai suoi nemici e perfino a Oreste Lionello che dette di lui un'immagine meno caricaturale di quel che lui stesso dava quand'era in vena, come si usa dire degli spiritosi e dei vampiri (e lui era ambedue). Andreotti non fu solo l'anima della Dc e della Prima repubblica ma ne fu anche l'icona, il top model. Andreotti somatizzò l'Italia. Le mani giunte e intrecciate per rassicurare l'anima cattolica d'Italia, un corpo non atletico che rispecchiava l'attitudine invertebrata del Paese, quell'Italia disossata e militesente, esonerata dalla ginnastica e incapace di mostrare muscoli e denti (neanche nel sorriso Andreotti ha mai mostrato i denti, ma solo un fil di labbra).

Unica differenza con l'Italiano tipo: fu casto e asessuato, non rappresentò l'indole pomiciona e un po' spaccona del Paese. E poi l'assenza del collo per fugare ogni impressione di mobilità e superbia, la voce sibilante e romanesca, emessa da una fessura, per sussurrare come dietro le grate di una confessione, con inflessione umile e domestica. E le spalle curve, quasi a custodire la sua scatola nera nella gobba e a rendere l'immagine dell'italiano-tipo piegato su se stesso a tutelare il suo particulare.
Il suo volto di sfinge, l'assenza di colorito e l'impossibilità che il sole potesse lasciare qualche impronta sulla sua cera insolubile, la testa piantata direttamente sulle spalle da aracnide cefalo-toracica e le orecchie estroverse per captare ogni minimo fruscìo, gli occhi a fessura che non si spalancavano mai per non lasciare sulla retina tracce compromettenti, salvo illusioni ottiche tramite le lenti bifocali; il passo guardingo e l'obliqua figura, il fideismo ironico che lascia il sospetto di una ferocia minuziosa, la sua devozione così curiale e così nichilista sulle sorti del genere umano.

Agli italiani non dispiaceva quella figura metà bigotta e metà malandrina, ironica e pregante, che rappresentava l'anima ambigua di un paese devoto e peccatore, che ammira Gesù ma tresca con Belzebù. Fu acuto nelle conversazioni, un po' scialbo e reticente nei diari; poteva raccontare fior di retroscena, ma preferì l'omertà in eterno.
Tra i tanti primati che si citeranno di lui vorrei ricordare una curiosità ignorata: dacché è nato lo Stato Italiano, mai, dico mai, c'è stato un capo dello Stato o di governo che fosse romano. Quattordici capi dello Stato, re inclusi, la metà piemontesi, più tre napoletani, due sardi, un ligure e un toscano. Mai un romano. E così alla guida del governo. L'unica eccezione fu Andreotti. Perciò quando si dice di Roma che tutto corrompe nel suo ecumenico abbraccio, l'unico esempio che ricorre è sempre e solo lui.

Come si vedeva anche a occhio nudo, la sagoma di Andreotti fu l'ombra dello Stivale.
È vissuto così a lungo che si è goduto pure la nostalgia di quando c'era lui al potere. Non fece la storia, preferì l'aneddotica e la leggenda.

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