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È dura invecchiare in ufficio Dopo i 45 anni sei un peso

Una ricerca della Bocconi svela una nuova tendenza in azienda: chi ha più anzianità viene meno valorizzato e incentivato. E perde motivazione

È dura invecchiare in ufficio Dopo i 45 anni sei un peso

Gli osservati speciali, quando si affronta il tema del lavoro, sono sempre e solo due: i giovani - nella fascia 15-24 anni, solo quattro mesi fa, quasi il 39 per cento era disoccupato - e gli esodati, rimasti senza stipendio e pure senza pensione. Nella terra di mezzo, avvolta da un cono d'ombra, ci sono gli over 45: lontani dalla pensione - specie ora che l'età lavorativa si è allungata - e non coperti da incentivi riservati ai più giovani. La disattenzione non è solo dei media, ma parte dalle aziende, che, secondo uno studio dell'Osservatorio Diversity Management Lab della Sda Bocconi, tendono a valorizzare molto poco i loro dipendenti che hanno superato quella soglia. Anzi, spesso li discriminano.

Al netto degli scatti di carriera automatici, per esempio, i balzi in avanti, a parità di inquadramento, sono molto più frequenti tra chi non supera i 38 anni. I dipendenti fino a quell'età ricevono anche, in media, valutazioni di 14 punti percentuali superiori rispetto a quelle degli over 45. Superati i 40, invece, la parabola è discentende. L'ufficio del personale li considera quasi come un peso, restare così a lungo nella stessa realtà imprenditoriale, invecchiare dentro lo stesso ufficio è una nota di demerito. È finita l'epoca in cui si raccontava orgogliosi di aver vissuto «una vita al servizio dell'azienda»: oggi, complice un mondo del lavoro sempre più flessibile e dinamico, si tende a pensare che chi resta vita natural durante nello stesso posto lo fa perché non ha ricevuto offerte migliori.

La discriminazione, fa notare lo studio della Sda Bocconi, non si fonda su dati scientifici: non che ci fosse bisogno di un test per capirlo, ma su un campione di mille lavoratori non sono state rilevate significative differenze di efficienza tra 30enni e 45enni. Non c'è nessun declino cognitivo prima dei 60 anni, e in ogni caso questo non si manifesta con forme significative prima dei 74. Tradotto: chi ha qualche capello grigio possiede energia da vendere, e un bagaglio prezioso di esperienza da impiegare - magari trasmettendola ai nuovi arrivati.

Che nelle aziende l'aria che tira non sia questa, però, lo conferma anche Giuseppe Zaffarano, presidente dell'associazione lavoro over 40: «C'è molta sfiducia nei confronti dei datori di lavoro, e delusione per prospettive di carriera non realizzate. La sensazione dominante è la paura per il futuro: in un momento in cui sono tante le aziende che vengono comprate da gruppi esteri, anche chi è assunto teme delocalizzazioni. E già dai 45 anni in poi gli uffici del personale, specie in questi tempi di magra, guardano al dipendente over 45 come a un futuro prepensionato, uno da far “scivolare“ fuori». È il quarto anno che l'università Bocconi realizza questa indagine, e solo dal 2012 il fattore età è diventato fonte di discriminazione: prima ne prevalevano altri, dalla provenienza etnica all'aspetto fisico, dal genere al tipo di laurea conseguita. Il cambiamento è frutto della crisi, e del conseguente forte ricorso da parte delle aziende ai prepensionamenti: lo «scivolo» verso il ritiro ha reso palpabile la consapevolezza che a 45 anni i giochi sono fatti, e se non hai fatto abbastanza carriera ti avvii verso l'uscita.

Nello stesso tempo, però, l'età della pensione si sposta sempre più in avanti, e il trend demografico italiano vede una bassa natalità e un aumento dell'aspettativa di vita. Secondo l'Ocse nel 2050 il 41 per cento della popolazione italiana sarà ultrasessantenne, e già entro il 2020 più della metà, il 61 per cento, avrà più di 45 anni.

Con questo le aziende dovranno fare i conti. «Il modello attuale di carriera deve essere rivisto», ha spiegato Simona Cuomo, una delle responsabili dello studio bocconiano. «Oggi è visto come un treno ad alta velocità, che porta a destinazioni brevi solo chi lo prende al momento giusto; in futuro i percorsi non potranno più essere focalizzati solo su alcuni target, come i talenti più giovani e i pochi dipendenti chiave di cui non si può fare a meno».

Considerando che spesso non si viene assunti prima dei 30 anni, bisogna che qualcuno cominci a pensarci, se si vuole evitare che quello tra dipendente e impresa diventi un lungo e infelice «matrimonio», di quelli in cui si resta insieme per obbligo, anche se già dopo quindici anni non ci si sopporta più.

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