di Carlo Lottieri
Fa sorridere vedere come la commissione Attività produttive della Camera abbia recepito all'unanimità la direttiva comunitaria che fissa un termine di 30 giorni per i pagamenti tra imprese. È questo senza dubbio uno dei maggiori e più seri problemi con cui le aziende devono fare i conti, ma non è con interventi di questo tipo che si potrà sanare una situazione che trae le proprie origini dalla crisi che stiamo conoscendo.
Per giunta, a riprova del fatto che lo Stato chiede agli altri comportamenti virtuosi mentre continua a praticare il vizio, il capogruppo del Pd in commissione, Andrea Lulli, ha ricordato come la norma non potrà essere impugnata da quanti vantano crediti nei riguardi della pubblica amministrazione. In futuro forse lo Stato si metterà in regola (se il governo, entro il 30 novembre, eserciterà la delega di cui dispone), ma per il pregresso le aziende creditrici dovranno ancora penare.
Se oggi molte attività pagano in ritardo i loro fornitori, in parte la colpa va addebitata a un certo malcostume. Sarebbe però assurdo non comprendere come la causa principale sia da riconoscere nello sfaldamento che l'economia italiana sta conoscendo. Invece che imporre per legge termini tanto perentori, meglio sarebbe ridurre la tassazione e la regolazione, facilitando la vita a quanti producono ricchezza.
Nella classifica Doing Business redatta dalla Banca mondiale al fine di misurare gli ostacoli che si frappongono a chi intraprende, non soltanto l'Italia è complessivamente all'87mo posto (dopo Zambia e Mongolia), ma si piazza addirittura al 158mo posto se si considera unicamente la capacità di far rispettare i contratti. Ecco: in un Paese che ha ormai uno dei livelli di tassazione più elevati e la cui giustizia civile è del tutto inadeguata al compito di fare tenere fede agli impegni assunti, tali crescenti pretese nei riguardi dei privati suonano un po' come una beffa.
Bisogna aggiungere che non soltanto non si capisce come le nuove disposizioni verranno fatte rispettare (specie quando le casse sono vuote), ma va anche detto che già ora - nei contratti tra aziende - è spesso indicato un termine per i pagamenti. In caso di ritardo, però, chi deve ricevere i soldi non può fare alcunché.
Invece che moltiplicare le norme e colpevolizzare il settore privato, lo Stato dovrebbe allora ripensarsi alla radice. In particolare, è urgente che la smetta di gravare con una tassazione esorbitante, finanziando una spesa pubblica fuori controllo e un settore pubblico che esige di essere drasticamente ridimensionato.
La classe politica queste cose sembra non vederle, così come non percepisce che siano dinanzi a un'autentica moria di piccole imprese. Molti tra quanti non pagano (a trenta giorni o a sessanta, poco importa), sono inadempienti perché stanno per chiudere. E quanti non hanno ancora mollato, adesso progettano di andarsene. Proprio ieri, in un aeroporto di Londra, decine di imprenditori italiani si sono trovati per dar vita a un'iniziativa, «Passaporto per la Vita», che delinea una rete d'attività fuori dai nostri confini e offre un sostegno a chi è ormai persuaso che in Italia non si riesca a lavorare e che sia quindi meglio tentare l'avventura altrove.
Uno Stato che spreme famiglie e imprese, che non paga i fornitori e intralcia chi costruisce qualcosa, si espone al ridicolo quando, con una norma di legge, scarica sugli altri la responsabilità dei problemi che ha generato. Ma, come si suol dire, ormai da tempo la situazione è drammatica, ma non è seria.
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