E in tre Regioni va in scena la farsa delle finte dimissioni

Un nuovo fenomeno politico sta prendendo piede nelle regioni italiane: le finte dimissioni. L'addio annunciato e mai messo in atto, l'abbandono come forma di minaccia per favorire altre dimissioni. «Se Raffaele Lombardo (nel tondo) non se ne va, ci dimettiamo!», tuonarono mesi fa le opposizioni nell'assemblea regionale siciliana. Altrettanto fecero le sinistre nel Lazio quando sono scoppiati gli scandali che hanno fatto cadere Renata Polverini. E uno psicodramma simile percorre la Lombardia. Dimissioni, dimissioni! Ma in realtà, nessuno se ne va davvero.

«Ho dato le mie dimissioni, ma le ho rifiutate» è un celebre aforisma attribuito a Winston Churchill. Ora i consiglieri regionali si limitano a minacciarle. Se non te ne vai da solo, ce ne andiamo noi per farti cadere. Il fatto è che questo spauracchio non intimorisce nessuno, tutti restano al loro posto e nulla cambia. Anzi, come è successo ieri in Sicilia, si assumono 209 persone per valutare progetti europei che hanno già perduto i relativi finanziamenti.

Prendiamo la Regione Lazio, squassata dagli scandali sui fondi ai gruppi politici. I consiglieri di sinistra avevano annunciato le dimissioni per dare una spallata alla Polverini. Nessuno però ha protocollato il gran rifiuto. Sarebbe stato un gesto inutile, perché non basta l'abbandono della minoranza per demolire il consiglio regionale: occorre che se ne vada il 50 per cento dei consiglieri più 1. Eppure la recita è andata ugualmente in scena, le dimissioni di massa sono state sbandierate come gesto di dignità. L'unica a congedarsi sul serio è stata la stessa Polverini. E ora assistiamo all'ultimo atto della pantomima, perché i consiglieri sono rimasti in carica, e tali resteranno finché non verrà decisa la data del voto.

Situazione simile in Lombardia. Un assessore viene arrestato per contiguità con la 'ndrangheta. La sinistra (Partito democratico, Italia dei Valori, Sinistra e libertà) annuncia indignata le dimissioni in blocco in modo da pensionare anzitempo il governatore Roberto Formigoni. Ma la formalizzazione non avviene. La revoca del mandato è una «disponibilità dichiarata». Sono pronti, tesi ai blocchi di partenza, non attendono che un cenno dallo starter, eppure le dimissioni non arrivano. Forse aspettavano il 21 ottobre, quando i neoeletti avrebbero maturato il diritto a un vitalizio; ma un recente decreto del governo dovrebbe togliere anche questo alibi.

Hanno pure il coraggio di manifestare sotto il nuovo grattacielo della regione. «Formigoni a casa». Ma i consiglieri del centrosinistra, di andare a casa, nemmeno a parlarne nonostante la «disponibilità». Tutti a imitare Filippo Penati, il rivale di Formigoni alle elezioni regionali del 2010, indagato per corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti. Lui sì che si è dimesso: dal gruppo consiliare del Pd, non dal consiglio regionale. È entrato nel gruppo misto, che non esisteva, e come capo di se stesso gode dei ricchi benefici concessi al nuovo gruppo consiliare. Un maestro. Anche il centrodestra annuncia iniziative clamorose. I consiglieri del Pdl hanno messo il mandato nelle mani del capogruppo Paolo Valentini. E intanto nessuno dà corso alle buone intenzioni.

Le finte dimissioni come strumento di guerriglia politica. La sinistra dichiara la disponibilità per dare un segnale alla Lega: se vi dimettete anche voi si va a casa. Ma la Lega resiste, vuole votare ma non subito perché i sondaggi non sono proprio favorevoli. Nemmeno la sinistra è messa bene, non ha un candidato pronto per la battaglia.

Allora il segnale si indirizza al centrodestra, il quale lo raccoglie parzialmente (dimissioni non «a disposizione» ma «nelle mani di») perché nemmeno dalle parti del Pdl la situazione è rosea. Se si dimettono loro, ci dimettiamo anche noi, una manovra a tenaglia per prendere in mezzo qualcuno. Tutti a casa, come nel film di Comencini? Ma quando mai.

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