Faide interne e malumori Quante spine per il premier

Inchieste, correnti e riforme al rallentatore spaccano il Pd. Sabato assemblea infuocata col nodo del nuovo presidente

Faide interne e malumori Quante spine per il premier

Dal Veneto ferito dal caso Mose alla Campania che allarma i democrat in vista delle prossime regionali, i focolai di tensione non mancano neppure nel Pd trionfante di Matteo Renzi. Che sicuramente, tra Europee e amministrative, porta a casa un successo senza precedenti, ma che deve fare i conti con l'incoercibile propensione a farsi del male da solo. Persino quando stravince.
Il caso Livorno è esemplare: che il vecchio gruppo di potere post-Pci che amministra la città dagli albori della Repubblica stesse perdendo rapidamente terreno era noto. Nichi Vendola, andato lì in campagna elettorale, aveva avvertito i dirigenti del Pd a Roma:«Guardate che a Livorno vince il grillino». Non a caso Renzi si è ben guardato dal farsi vedere da quelle parti. Ma la sconfitta, un classico «caso Bologna», un ricambio «fisiologico e anche salutare» dopo 70 anni, come dice il dalemiano Amendola, è stata immediatamente oggetto di un rimpallo di accuse tra renziani e anti-renziani, tra «vecchia guardia» e «partito nuovo». Con Pierluigi Bersani e Enrico Letta che rompono il silenzio sulle elezioni solo per commentare quella sconfitta. «Bisogna studiare a fondo la situazione, ci sono delle spine e Livorno è una di queste», dice l'ex segretario. Mentre l'ex premier parla di una «sconfitta clamorosa, e non solo per il suo valore simbolico, che merita una riflessione profonda, perché è del tutto inattesa». Intanto i Pd campani si dicono preoccupati: alcune piccole ma significative roccaforti, come Torre del Greco, sono state perse. «Sono segnali inquietanti, che indicano un voto di centrodestra che al Sud regge. E l'anno prossimo abbiamo le Regionali: rischiamo di non farcela», spiegano.
Nel Veneto, il Pd locale soffre quello che un parlamentare chiama «lo spietato cinismo» dei renziani. Brucia ancora quel segnale lanciato dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti («Orsoni non è del Pd»), subito corretto da Renzi, ma comunque arrivato a destinazione. Con un significato semplice: il sindaco indagato e arrestato per finanziamento illecito viene abbandonato al suo destino. «E se poi le indagini lo scagionano? Se si rivela tutto una bolla di sapone? Manca il senso del partito come comunità», lamentano alcuni. Ma ieri Debora Serracchiani, portavoce del partito, ha spiegato ai veneziani che la giunta della Laguna va azzerata, perchè così la situazione non può «reggere».
Renzi si tiene alla larga dalle beghe interne, e ai suoi ha imposto una linea meno guerrigliera contro «il vecchio Pd». Anche perché sabato, all'Assemblea nazionale del Pd, si inizierà a porre mano al nuovo organigramma del partito, nel quale il segretario vuol dar voce a tutte le componenti. A cominciare dalla minoranza, che ha l'onore e l'onere di proporre un nome per la presidenza. Solo che non riesce a trovare un accordo al suo interno: i giovani turchi vogliono Matteo Orfini, i lettian-bersaniani Paola De Micheli, un'altra ala propone il governatore del Lazio Nicola Zingaretti. Quanto alla segreteria, anch'essa sarà radicalmente rinnovata, ma ieri i renziani escludevano che possa essere annunciata già sabato.
Nel frattempo, scoppia anche il caso Senato. La riforma del Senato è in stand by in attesa che l'incontro Renzi-Berlusconi sciolga il nodo della posizione di Forza Italia. Nel frattempo, il voto di Corradino Mineo, pasdaran anti-renziano, può diventare decisivo in commissione e molti premono perché venga sostituito. «Gli italiani hanno approvato l'approccio riformatore del governo. È come se avessero detto all'esecutivo: ok, procedi. Nel Pd lo hanno capito quasi tutti.

Tranne alcuni, e penso a Mineo», affonda il sottosegretario Pd Scalfarotto. Insorgono dalla minoranza i difensori dell'eroico dissidente. Ma i renziani frenano: «Evitiamo di farne un martire, che lui non vede l'ora. Tanto, se l'accordo con Berlusconi regge, Mineo non conta niente».

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