Fini scarica le colpe su Elisabetta «Vado avanti, non mi dimetto»

Fini scarica le colpe su Elisabetta «Vado avanti, non mi dimetto»

Roma Non fa un passo indietro. Non si dimette. Non cambia niente, dice: «Non ho mentito agli italiani». Cambia forse qualcosa nel rapporto con la sua compagna, Elisabetta Tulliani, o con la famiglia di lei: c'è, da ieri, «una profonda amarezza per comportamenti che non condivido». Dopo le ultime rivelazioni del settimanale l'Espresso sulla casa di Montecarlo ereditata da An, Gianfranco Fini non mantiene il patto che aveva siglato con un messaggio video rivolto due anni fa al Paese. Una giornata di silenzio, suo e dei suoi uomini, un lungo vertice di Fli durato oltre due ore, si sono conclusi con dodici righe di comunicato e la decisione di rimanere in sella. Dall'ultima inchiesta giornalistica non risulta «nulla di nuovo e definitivo rispetto all'effettiva proprietà» della casa, scrive Fini. Dice di non intendere farsi «condizionare dalla ciclica comparsa di documenti, più o meno autentici, sulla casa di Montecarlo». L'unica certezza della vicenda è «l'archiviazione giudiziaria». Le notizie pubblicate dall'Espresso, fa sapere in serata la procura di Roma, sono cose «già note». Il presidente della Camera, prosegue il comunicato, continua a fare il suo lavoro «a testa alta». Le rivelazioni giornalistiche suscitano però «amarezza, ma questo è un aspetto tutto e solo personale». L'unica «novità», allora, per Fini, è il coinvolgimento della compagna. A cui sembra essere addossata tutta la colpa di una giornata da dimenticare.
Una giornata di trinceramento in ufficio e di dubbi, in cui l'ipotesi delle dimissioni sarebbe stata in effetti valutata. Vagliata con il quartier generale e, a quanto si apprende, anche con il Quirinale. Fini è comparso per mezz'ora davanti all'assemblea, poi ha delegato ai vicepresidenti. Dalle undici del mattino ha lasciato l'aula. Doveva incontrare il ministro iracheno Hoshyar Zebari in una sede pubblica, la sala del Cavaliere, invece la delegazione è stata ricevuta nello studio, dieci minuti o anche meno. Liquidati gli iracheni, la stanza di Fini alla Camera è diventata il luogo del dramma, prima soffocato tra le poltroncine del Transatlantico, o nel giardino interno, dove gruppetti di futuristi (Flavia Perina, Benedetto Della Vedova, Antonino Lo Presti) parlavano fitto, gesticolavano, fumavano nervosamente. Sono le quattro del pomeriggio quando cede la tattica della quasi invisibilità. Fini rimane chiuso nella sua stanza, chi lo conosce dice che il fatto che non abbia mangiato non è notizia, a pranzo tira con sigaretta e caffè. Varcano il corridoio i fedelissimi, Della Vedova, Bocchino e Bongiorno, la consigliera giuridica. Fino a quel momento avevano avuto la consegna del silenzio. Solo Fabio Granata aveva infranto la linea: «Noi siamo al suo fianco». Dopo una giornata di imbarazzi, il caso ora è affrontato di petto. Il faccia a faccia ha inizio. Dietro la porta dell'ufficio di Fini si discute, e non si esclude nessuna possibilità. Alla Camera qualcuno inizia a parlare di dimissioni, anche se chi conosce bene il presidente, e ancor meglio le mura del palazzo, sorride: «Non se ne va! Non se ne andrà mai», esclama un commesso che transita dal piano presidenziale («neanche se gli sparano», era stata la valutazione di Umberto Bossi). E un altro: «Non state pensando alla terza ipotesi, che si separi dalla moglie...».
Dopo mezz'ora esce Della Vedova. Si siede in Transatlantico con aria affaticata. «È una giornata difficile - ammette - ma ce ne sono state altre altrettanto difficili». Non difende però il suo capo a spada tratta: «Sto cercando di capire».

Fini farà come Veltroni, anche se le storie sono diverse, ossia un passo indietro? Il capogruppo di Fli non risponde e basta. È chiaro che all'interno del partito c'è chi ci pensa a questa soluzione. Il comunicato, per ora, è l'ultima resistenza.

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