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Follie fiscali: la scuola privata ora diventa un segno di lusso

La retta per l’istruzione dei figli finisce nello spesometro anti evasori: genitori e Chiesa in rivolta contro il governo

Follie fiscali: la scuola privata  ora diventa un segno di lusso

Roma - La retta della scuola, al pari delle spese di lusso. La rata della mensa alla stregua di una vacanza ai tropici. La denuncia parte, e non da oggi, da ambienti cattolici e ieri ha trovato spazio nelle pagine di Avvenire, dove il rappresentante legale di una paritaria ha spiegato di essere tenuto a segnalare all’Agenzia delle entrate le rette che superano 3.600 euro. Mandare figli a una scuola non statale, insomma, sembra comportare l’iscrizione d’ufficio nella lista dei sospetti di evasione. O, quantomeno, è un dato che l’amministrazione fiscale utilizza insieme ad altri per stabilire se e quanto un contribuente è ricco.

Il riferimento è allo spesometro, strumento anti evasione fiscale nato per rilevare le discrepanze tra stili di vita da nababbi e redditi da nullatenenti. Le scuole erano già nell’elenco delle spese «sospette» nella versione del 2011.

Ma da quest’anno, riferisce Corrado Brizio - «pare si debba segnalare all’Agenzia delle entrate non solo l’importo della retta per le ore curricolari, ma tutto quello che una famiglia corrisponde alla scuole per ogni servizio richiesto: mensa, doposcuola, eventuali corsi extracurricolari». L’amministrazione fiscale ha infatti deciso che lo spesometro non è più selettivo e nel calderone delle spese di lusso sono finite anche gli altri costi sostenuti dai genitori, compreso il pranzo degli scolari. «Infatti è noto a tutti - ironizza Brizio - che chi si permette di mangiare a una scuola paritaria deve essere un bambino benestante, mentre il bambino povero, che frequenta una scuola statale, non mangia oppure mangia a casa propria». Stesso ragionamento per il doposcuola: «Vuoi mettere la soddisfazione di pagare a casa una baby sitter?».

La segnalazione chiaramente non piace nemmeno ai genitori. «Siamo in disaccordo - conferma l’Agesc, associazione dei genitori delle scuole cattoliche che da sempre fa la guerra alle paritarie nello spesometro - perché per noi pagare la retta rappresenta un sacrificio, che si protrae per più anni». E che si somma alle imposte, che servono a pagare le statali.

Prende posizione anche il direttore del quotidiano della Conferenza episcopale, Marco Tarquinio. «Sin dal primo momento abbiamo denunciato la logica aberrante che ha portato a considerare le spese sopportate per l’istruzione dei figli non come un indice di civiltà e libertà», ma come «mero indicatore di ricchezza». Poi una battuta: «Vorrei davvero un Paese di presunti evasori che dilapidano i soldi per mandare a scuola i figli». E l’auspicio che riflettano «coloro che, purtroppo, sono ancora e sempre preda rei riflessi condizionati “anti-private”».

L’Agenzia delle entrate aveva già avuto modo di precisare, quando era ancora in vigore lo spesometro prima versione, che mandare i figli a scuola non significa finire sotto la lente degli ispettori. «La frequenza di una scuola privata - aveva spiegato il presidente dell’Agenzia Attilio Befera - non basta da sola a focalizzare l’attenzione su un contribuente; è un dato di cui ci si serve per ricostruire la situazione complessiva del soggetto».
Resta il fatto - osservava ieri il genitore di uno studente - che se in anno spendo in un negozio più di 4mila euro non devo essere segnalato. Per la retta, che comunque pago mensilmente, invece sì.

Il colmo, insomma, sarebbe che in questi mesi di grande attivismo del Fisco per recuperare somme non pagate e per scovare aree di evasione, a pagarne il costo, oltre agli imprenditori in crisi di liquidità, fossero le famiglie che hanno deciso di fare un sacrificio per una scelta educativa o religiosa.

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