Il giaguaro ha smacchiato Bersani

RomaBersani solo a mezzanotte dopo un lungo silenzio: «Abbiamo vinto alla Camera e per numero di voti anche al Senato», annuncia, prima che lo spoglio sia finito. «Gestiremo la responsabilità nell'interesse dell'Italia», ma la situazione che si apre, è «delicatissima».
La maggioranza al Senato non c'è, i bersaniani devono scegliere tra l'abbraccio con il famigerato «Giaguaro» resuscitato o l'azzardo di tentare di sedurre il trionfante Grillo. Che però li manda preventivamente a quel paese, «nessun inciucio», detta ai suoi da Genova.
A sentire i portavoce del segretario Pd, sguinzagliati ieri sera in giro per tv, il tentativo di seduzione dell'ex comico è in pieno svolgimento, ma dal fronte 5 Stelle nessuno fa aperture. Bersani, dato più volte sull'orlo delle dimissioni nel corso della giornata, riunirà oggi lo stato maggiore per decidere che fare. Sarà in ogni caso lui a guidare il centrosinistra in questa difficile e inaspettata temperie. «Lo ho sentito, e siamo d'accordo che ora tocca a noi», assicura l'alleato Nichi Vendola.
Al di là dei proclami di facciata, il risultato è «una Caporetto», come sintetizza un alto dirigente. Una sconfitta epocale, morale prima ancora che bellica, psicologica prima ancora che numerica. Nessuno, nello stato maggiore del Pd, aveva avuto in questi giorni il minimo sentore di quel che si preparava. Nelle loro convinzioni radicate, la pelle del «giaguaro» era già nel sacco, Pier Luigi Bersani era già a Palazzo Chigi, e gli altri a cascata: Franceschini? Presidente della Camera. Letta? Ministro dell'Economia. D'Alema? Esteri. No, anzi, Interni, e Monti agli Esteri perché «anche se avremo il 51%, ci comporteremo come se avessimo il 49%». Si sono fermati intorno al 30%, però. Peggio di Veltroni (4 milioni di voti in meno) e di Occhetto.
Nella grande rotonda dell'Acquario comunale di Roma (ora Casa dell'Architettura, prenotata dal Pd per festeggiare una storica vittoria che non è arrivata) alle 16 è sceso il gelo. I dirigenti bersaniani presenti (Zoggia, Fiano, Orfini, Alessandra Moretti, Giuntella, Fassina), che fino a pochi minuti prima sorridevano beati tracciando organigrammi che andavano fino ai sottosegretari, restano impietriti davanti agli schermi tv.
Inizia un calvario di dati, con le regioni che al Senato si volatilizzano l'una dopo l'altra e Grillo che mangia a gran bocconi il Pd in giro per la penisola (a Siena la débâcle arriva a -14%, nella natia Bettola vince il Pdl). E dalla base del partito, mentre Pier Luigi Bersani è chiuso a casa e nessuno riesce a parlargli, tranne il fido Migliavacca («MileCow», come lo chiama D'Alema), parte sui social network un tam tam di rimpianti tardivi: «Se avessimo candidato Renzi...».
Al Nazareno si radunano i big, a scervellarsi sul da farsi. La prima strada, a caldo, la indica Enrico Letta: «Se i risultati sono questi si torna subito a votare». Ma di lì a poco (complice anche qualche telefonata dal Colle) si frena: «Se torniamo al voto ora, il Pd fa la fine del Pasok», dice un ex ministro. E si inizia a vagheggiare il varo di una nuova «costola della sinistra», non più guidata da Bossi ma dall'ancor più intrattabile Grillo. C'è chi ipotizza di dare ai fan del comico la presidenza della Camera, in cambio di sostegno ad un governo che faccia riforma elettorale e tagli alla politica. «Se avremo la maggioranza alla Camera, Bersani chiederà l'incarico e al Senato proverà a capire se si apre un confronto con i 5 Stelle», spiega Corradino Mineo.

E c'è anche chi pensa che «l'unica strada sia un governo di larghe intese col Pdl». Intanto, nel Pd le ipotesi di successione sono già sul tavolo. I nomi? Fabrizio Barca, e, naturalmente, Matteo Renzi, che a Firenze tace. E forse si gode un'agrodolce vendetta della storia.

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