Il gioco del cerino va avanti tutto il giorno: arrivano, non arrivano, arrivano più tardi. Le quindici, le diciassette, le venti. Ancora niente. La giornata di Alessandro Sallusti prosegue interminabile nell'attesa che gli agenti della Digos gli consegnino il provvedimento del giudice che lo sigilla agli arresti domiciliari per 14 mesi. C'è un clima strano in via Negri, al quartier generale del Giornale, mano mano che passa il tempo: sembra di stare in una pagina del Deserto dei tartari, si aspetta e non succede niente. Ma qualcosa accadrà.
L'imbarazzo generale
Nessuno vuole scottarsi col cerino. E allora magistratura e polizia rimandano, cercano una soluzione che permetta di chiudere la faccenda, ovvero di blindare Sallusti nella sua abitazione milanese, senza strepiti, lontano da telecamere e taccuini. Lui però non si lascia rovinare la giornata, già complicata dall'annuncio che il giudice di sorveglianza Guido Brambilla ha deciso il suo destino: Sallusti continua a lavorare. Come se fosse un giorno normale. Anche se di ordinario c'è poco o nulla oggi.
La conferenza stampa
La situazione di stallo si sblocca in tarda mattinata quando dal Palazzo di giustizia filtra finalmente la decisione di Brambilla, attesa ormai da lunedì: Sallusti andrà ai domiciliari. Esattamente come aveva chiesto il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati che, pur di liberarsi del cerino, aveva seguito un percorso non proprio ortodosso: aveva avocato il fascicolo, togliendolo ai sostituti che seguivano il caso, e aveva forzato la norma prospettando dunque la soluzione soft della detenzione a casa. Scartando invece quella più traumatica del carcere. Una mossa che ha indispettito i pm della procura che non l'hanno presa affatto bene. Ma questa è anche la conclusione cui giunge Brambilla. Quello che non si sa è quali saranno le modalità dei domiciliari. Rigide, rigidissime, più liberali? Mistero, in attesa di conoscere nei dettagli il provvedimento che non arriva. Ma è facile prevedere che il giudice abbia stabilito un muro di limitazioni intorno al direttore del Giornale: niente contatti con l'esterno, niente telefonate, niente di niente. Come capita alla stragrande maggioranza delle persone sottoposte a questa misura. In generale è il condannato a chiedere deroghe di questo o quel tipo. Sallusti però non ha posto domande e non le porrà. Il finale appare scontato. Anzi, no.
«Rifiuto i domiciliari»
Sallusti - al suo fianco il vicedirettore, da oggi vicario, Nicola Porro - tiene una conferenza stampa drammatica. Il messaggio ripetuto, a tratti con la voce rotta dall'emozione, è chiarissimo che più chiaro non si può: «Rifiuto gli arresti domiciliari. Ripeto: li rifiuto. Io voglio andare in carcere, esattamente come i seimila detenuti con pene fino a 2 anni di cui ha parlato il Giornale in questi giorni che non hanno ricevuto un trattamento preferenziale come il mio. Io non voglio privilegi, io non voglio favoritismi, io non accetto scorciatoie. Io vado in galera e per questo chiedo formalmente la revoca dei domiciliari». I colleghi, presenti nella sala a piano terra del Giornale, si guardano perplessi. La situazione è paradossale e inedita: non era mai capitata, a memoria di cronista giudiziario, una vicenda del genere. Ma il direttore ha deciso di andare fino in fondo: non tollera compromessi, perché troppo grande è il principio in gioco. La libertà di opinione, la libertà di stampa, la libertà di pensiero vanno difese senza se e senza ma. E allora Sallusti decide di esporsi, anche se ne farebbe volentieri, ma proprio volentieri, a meno. «Io - riassume Sallusti - non appartengo alla casta e non voglio essere scambiato per uno di quei signori di cui abbiamo descritto sul Giornale vizi e difetti. Mi dispiace, non cedo».
L'appello a Bruti Liberati
Il direttore del Giornale va all'attacco: «Invito Bruti Liberati a revocare i domiciliari, perché altrimenti si renderà complice di un altro reato, cioè quello di evasione, anzi il suo atteggiamento lo considero istigazione a delinquere». Parole forti, sul filo della provocazione, come lo sono le provocazioni: il punto è che il direttore del Giornale non vuole finire nella rete soffice e protettiva dei cavilli, dei distinguo, delle trovate giuridiche. O di qua o di là. «Ciascuno si prenda le sue responsabilità, io mi sono preso le mie», tira dritto il direttore. «Io supplico il procuratore: oggi mi mandi i carabinieri e i carabinieri mi traducano in un carcere della repubblica». Dunque, il giornalista non vuole assolutamente violare la legge, non vuole commettere un reato, non vuole mettersi dalla parte del torto. Semmai pretende che la norma sia applicata a lui come lo è a migliaia di disgraziati. Parafrasando Bertolt Brecht, si potrebbe dire che Sallusti sta per sedersi dalla parte del torto perché gli altri posti sono già stati occupati. Ma non è questo quello che vuole.
Il battibecco con il Fatto
Sallusti insiste: «Questa condanna è una porcata. Il pezzo non l'ho scritto io ed era firmato Dreyfus. Sarebbe stato sufficiente indagare cinque minuti per scoprire che Dreyfus era Renato Farina. Non solo: all'epoca abbiamo messo in pagina due pezzi e quei due articoli sono stati fatti passare per campagna stampa. Ma dove? E poi non ho rettificato la notizia per la più banale delle ragioni: a Libero non avevamo l'Ansa e non sapevo che la notizia era stata smentita. Ripeto: questa è una porcata». «Dipende - gli risponde dal fondo della sala Gianni Barbacetto, cronista del Fatto quotidiano e volto televisivo - se uno commette gravi reati...». Poi, Barbacetto prova a frenare: «A me spiace che chiunque vada in carcere, vorrei che le carceri fossero vuote». Adesso è Sallusti che non ci sta: «A te non spiace niente, cosa vuoi che ti importi. Non fare il paraculo e abbi il coraggio di quello che dici. Non dire mi dispiace, che sei contento che vado in carcere». Per un attimo si accende la scintilla anche fra Sallusti e Paolo Colonnello della Stampa. Poi il direttore del Giornale chiude con una nota polemica: «Avrei gradito vedere qua qualche direttore, ma non c'è nessuno. Mi dispiace».
Gli applausi dei lettori
Sallusti torna nel suo ufficio. Saluta l'editore Paolo Berlusconi, l'amministratore delegato Andrea Favari, la sua compagna Daniela Santanchè, il suo difensore Valentina Ramella. Bevono un caffè. Poi scende in strada dove si è radunata una discreta folla. I lettori applaudono, lui saluta tutti, compreso Ignazio la Russa, venuto a dargli la sua solidarietà. Stringe anche la mano di Barbacetto e chiude l'incidente, almeno per oggi. Poi torna a lavorare.
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