È il simbolo del Pd che rinuncia alle sbandate moderniste post caduta del muro di Berlino, quelle blairiane e clintoniane, e torna alle radici storiche della sinistra italiana. Laureato alla Bocconi, ma nemico dichiarato del libero mercato. Responsabile economico ultra keynesiano del partito, nominato da Pier Luigi Bersani, al quale è rimasto fedele fino all'ultimo.
Se a sinistra ci fosse ancora un'unica ideologia, Stefano Fassina sarebbe un ortodosso, mandato gramscianamente alla scuola della borghesia per combatterla sul suo campo.
Ma i tempi sono cambiati. Fassina resta un esponente di punta dei Giovani turchi e quindi della sinistra interna ai democratici, ma da ieri è anche viceministro all'Economia con delega alle politiche fiscali.
Il suo nome era circolato per altri dicasteri. Doveva fare il ministro. Si era parlato del Lavoro che poi è stato affidato a un ministro decisamente più neutro, lo statistico Roberto Giovannini. Il suo slot è stato occupato da Andrea Orlando, altro Pd che ha fama di essere più moderato e ora è ministro dell'Ambiente. Lui si è dovuto accontentare della poltrona di vice di Fabrizio Saccomanni, che comunque gradisce più di quella di reggente del Pd, che per un po' sembrava dovesse toccargli.
Appena insediato, Fassina ha sganciato sulla maggioranza due «no» pesantissimi. Innanzitutto sull'Imu che grava sulla prima casa che non vorrebbe eliminare. «Noi abbiamo un problema di costo del lavoro molto elevato e a nostro avviso la priorità è ridurlo insieme ala tassazione sul reddito di impresa perché questo aiuta l'economia».
Poi ha detto no alla nomina di Silvio Berlusconi alla Convenzione sulle riforme: «Dobbiamo trovare una figura in grado di dare garanzie a tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento. Temo che il senatore Berlusconi non sia tra queste».
Cortese nei toni, fermo nella sostanza e mai moderato. È stato il primo esponente Pd a criticare apertamente Mario Monti e il suo esecutivo tecnico, tanto da creare una tensione nel partito che è arrivata, nelle fasi finali del precedente governo, ad un livello di guardia.
Fece notizia la reazione di Enrico Letta, allora vicesegretario del Pd, ad una sua ennesima presa di posizione contro il programma del leader di Scelta civica (la tesi era: «Bisogna rottamare l'agenda Monti»). «Si è passato il segno», disse Letta. Frase che equivaleva una richiesta di dimissioni dalla carica di responsabile economico del partito. Dimissioni che non sono mai arrivate.
Quando si è trattato di fare un braccio di ferro con i riformisti del suo partito, non si è mai tirato indietro. E ha quasi sempre vinto lui. Ad esempio quando incrociò la spada con Pietro Ichino, icona dei riformisti della sinistra, che se n'è andato dai democratici alla fine dell'ultimo pesante scambio di opinione con il collega.
Avevano cominciato a duellare nel 2011, quando Fassina rinfacciò al giuslavorista una linea troppo riformista sul lavoro e liquidò l'intera area liberal del Pd come una correntina dal 2%. Nel 2012 lo scontro sull'agenda Monti, finito con le dimissioni di Ichino.
Le
premesse, insomma, fanno pesare a un viceministro difficile da gestire per il moderato Letta. Il presidente del Consiglio, c'è da scommetterci, si sarà già chiesto se, anche questa volta, Stefano Fassina passerà il segno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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