Il Grande Orecchio d'Italia che spiava l'Urss (e gli Usa)

È la Cassazione delle intercettazioni. "Captai il battito della cagnetta Laika e la voce di Gagarin, primo astronauta in orbita. Il Kgb tentò di comprarmi"

Giovanni Battista Judica Cordiglia
Giovanni Battista Judica Cordiglia

In fatto di orecchio, Giovanni Battista Judica Cordiglia è considerato la Cassazione da magistrati, investigatori, avvocati e colleghi. Mica facile trovare un altro perito di tribunale così esperto nelle intercettazioni da aver auscultato a 18 anni il battito cardiaco della cagnetta Laika prigioniera nella capsula spaziale sovietica Sputnik 2; da aver registrato a 21 la voce del cosmonauta russo Jurij Gagarin, il primo uomo lanciato nello spazio; da aver tenuto in scacco a 22 la Nasa e la Cia, captando le comunicazioni dell'astronauta John Glenn, il primo statunitense a entrare in orbita attorno alla Terra; da essersi accorto a 63 che il nastro del colloquio fra i magistrati Francesco Misiani e Renato Squillante, origliato nel bar Mandara di Roma e ritenuto dal pubblico ministero Ilda Boccassini la prova regina del processo Sme-Ariosto contro Silvio Berlusconi e Cesare Previti, era stato manipolato.
Oltre che per il suo orecchio, Judica Cordiglia, 73 anni, sposato, due figli, passerà alla storia anche per il suo occhio. Non soltanto per aver creato nel 1959, col fratello Achille, poi divenuto cardiologo, la prima Tv commerciale d'Italia, nata per gioco ma vista regolarmente via cavo da 2.500 torinesi fino al 1960, quanto per essere stato il perito che ha scattato le prime immagini della Sindone a colori, agli ultravioletti e all'infrarosso dai tempi delle ultime riprese in bianco e nero eseguite nel 1931 dal fotografo Giuseppe Enrie. Nel rievocarlo, ora che va per i 74 anni, si commuove fino alle lacrime: «Il privilegio mi fu accordato perché mio padre Giovanni, medico personale del cardinale Ildefonso Schuster, aveva compiuto le ricognizioni sulle spoglie mortali di molti santi, fra cui Ambrogio, patrono di Milano, ed era l'autore della prima perizia medico-legale sull'Uomo della Sindone, al quale dedicò 14 libri. Fu un'indagine privata e segreta autorizzata nel 1969 dall'arcivescovo Michele Pellegrino. Ebbi a mia completa disposizione il sacro lino a Palazzo Reale. Tre giorni e tre notti senza dormire, guardato a vista dai carabinieri. Seduto per terra, mentre nel buio aspettavo che i miei occhi si abituassero a scorgere la figura illuminata solo dai raggi ultravioletti, mi venne spontanea una preghiera: Dio, fa' in modo che queste foto mi riescano bene. A un tratto lanciai un grido al pretino della curia incaricato di assistermi, che stava leggendo il suo breviario alla luce di una piccola torcia: guardi! Il sacerdote spense la pila, si avvicinò e per poco non svenne: era come se la sagoma tridimensionale di Cristo uscisse dal lenzuolo funebre, si sollevasse per venirci incontro. All'improvviso notavamo particolari mai osservati in precedenza. Lì compresi il significato delle parole di mio padre: “Questo è il quinto Vangelo”. Egli aveva rinvenuto nel sudario la perfetta corrispondenza col racconto della Passione. Però concludeva: “Come uomo ne sono convinto, come studioso ho dei grandi dubbi”. Per me invece la Sindone è vera, lo dico da studioso e da uomo». Da studioso è arrivato a una conclusione sul come si sia prodotta l'impronta: «Solo un fenomeno elettrico violentissimo, proveniente dall'interno o dall'esterno del cadavere, può aver creato un'immagine che si presenta come una negativa fotografica». E cita il caso di un bimbo colpito da un fulmine e stramazzato al suolo in posizione prona, sul cui torace è rimasta stampata in negativo l'immagine di alcuni rami di pino che erano per terra.
In veste di perito fonico e fotografico di giudici e avvocati e di consulente dei pubblici ministeri, Judica Cordiglia, che è nato a Erba ma abita da una vita a Torino, ha avuto un ruolo di primo piano nei sequestri Melis e Sgarella, nel caso del giudice Luigi Lombardini morto suicida e nei processi a Marcello Dell'Utri e Vanna Marchi.
Come iniziò a occuparsi di intercettazioni?
«Per gioco, leggendo Sistema A, una rivista che insegnava a riutilizzare il materiale radioelettrico venduto dai robivecchi. Con mio fratello costruii un trasmettitore e mi collegai con un radioamatore di Rio de Janeiro. Avevo 9 anni. Il 4 ottobre 1957, al lancio dello Sputnik 1, primo satellite artificiale della storia, riuscimmo a intercettarne il segnale. L'agenzia Tass aveva fornito la frequenza, perché i sovietici ci tenevano a far sapere al mondo del loro primato. Un mese dopo captammo il battito cardiaco della cagnetta Laika in volo sullo Sputnik. Nel giro di due anni l'Urss era già in grado di fotografare dallo spazio la testa di un chiodo piantato sulla Terra. Da lì in avanti non abbiamo più smesso, intrufolandoci in tutti i programmi spaziali russi e americani: Vostok, Voskhod, Sojuz, Mercury, Explorer, Gemini. Nell'aprile 1961 intercettammo le parole che Gagarin pronunciò dalla navicella Vostok 1: “Sto completando il volo... sono in assenza di peso... vista meravigliosa... La Terra è azzurra”. E demmo al mondo la notizia del lancio 15 minuti prima che venisse annunciato dalla Tass».
Non tutte le missioni sovietiche nel cosmo sono state così meravigliose.
«Abbiamo calcolato che l'Urss possa aver sacrificato 14 astronauti in voli sperimentali tenuti segreti. Su 6 vittime vi è la certezza. L'intercettazione più drammatica fu quella del 16 maggio 1961. Una missione con tre voci, due uomini e una donna. Una settimana dopo dagli astronauti maschi nessun segno di vita. Le ultime parole trasmesse sulla Terra dalla loro compagna di volo furono agghiaccianti: “Pronto... pronto... ascoltate... pronto... parlate... parlate... ho caldo... ho caldo... come?... 45? 50... sì, sì, sì... ossigeno... ossigeno... vedo una fiamma... vedo una fiamma... precipiterò?”. Non potevamo captare la risposta dalla base. Ma la disperata conclusione dell'astronauta sì: “Questo il mondo non lo saprà mai”. Infine il silenzio totale».
E che altro invece il mondo ha saputo grazie a voi?
«Il 4 febbraio dello stesso anno fu reso noto che dal cosmodromo di Baikonur era stato lanciato lo Sputnik 7. Destinazione Venere. I sovietici non dissero che c'erano degli uomini a bordo. Il 2 febbraio, intorno alle 21, noi avevamo intercettato un segnale molto forte, proveniente da un satellite in orbita che transitava sopra Torino. Si trattava di un respiro affannoso. Telefonammo al professor Achille Mario Dogliotti, il pioniere della cardiochirurgia, che si precipitò con la sua équipe. Allora la stazione d'ascolto era montata nella nostra camera da letto. Alle 22.14 ripassa il satellite. Rivedo ancora la scena di Dogliotti che, a cavalcioni d'una sedia, ascolta col mento appoggiato allo schienale e le palpebre socchiuse: “Il battito cardiaco è preagonico. Sento un'extrasistole. Il respiro è dispnoico. Quest'uomo ha fame d'aria, gli manca l'ossigeno. Sta morendo”. L'indomani il luminare ricavò dalla registrazione un fonocardiogramma che confermò in pieno la diagnosi».
Ma lei e suo fratello Achille come facevate a decifrare il russo?
«Oltre ad averlo studiato in famiglia, ci avvalevamo degli interpreti di madrelingua mandati da Emilio Delon, figlio del fondatore della Berlitz school. Il nostro lavoro fece innervosire parecchio il Cremlino, al punto tale che Radio Mosca il 4 aprile 1965 trasmise per tutto il giorno stralci di un articolo apparso su Stella Rossa in cui il generale Nikolai Kamanin, capo del programma spaziale sovietico, definiva me e mio fratello “banditi dello spazio” e “schiavi del bieco imperialismo Usa”. Venne a cercarci Anatoli Krassikov, corrispondente della Tass da Roma, in realtà un uomo del Kgb, poi divenuto capo del servizio stampa del Cremlino. Gli aprì la porta mia madre. Si offrì subdolamente di finanziarci. Ovviamente non accettammo. Dieci minuti dopo ci contattarono gli agenti del Sifar».
Ero rimasto fermo a quelli della Cia.
«Faccenda complicata. Era il 1962. Volevamo captare la voce di Glenn, in orbita attorno alla Terra con la navicella Mercury, perciò chiedemmo in anticipo alla Nasa di conoscere la frequenza su cui avrebbe trasmesso. Ci fu negata per il timore d'interferenze. Allora ci procurammo la foto di una Mercury in mare, con l'antenna distesa. Essendo la lunghezza di ogni antenna pari a un quarto della lunghezza d'onda, potevamo calcolarci la frequenza da soli. Ma quanto era lunga l'antenna? Qui ci venne in soccorso nostro padre, che da buon medico legale ricavò l'indice bizigomatico di un sommozzatore ritratto nella foto. Riportando tale misura sull'antenna, ne determinammo la lunghezza e risalimmo alla frequenza. Il 20 febbraio registrammo la voce di Glenn che parlava di “ottime condizioni atmosferiche”. A quel punto ci convocò la Nasa».
Vi convocò dove?
«A Washington, nel quartier generale al numero 400 di Maryland avenue, dove ci presentammo col nostro registratore Geloso e facemmo ascoltare tutti i nastri a William Hausman, capo degli Affari internazionali. Arrivato all'intercettazione di Glenn, sbiancò: “Not possible!”. Per farla breve, ci organizzò un viaggio al centro di volo spaziale Marshall di Huntsville, in Alabama, dove lavorava il Cranio».
Cioè?
«Wernher von Braun, il padre della missione Apollo. E poi nella base texana di Cape Canaveral, a Houston, dove stavano costruendo il razzo Saturn che avrebbe consentito agli astronauti di arrivare sulla Luna. Era un hangar talmente enorme che all'interno si creavano zone climatiche diverse, per cui in alcuni punti addirittura pioveva».
Ha battuto americani e russi con attrezzature di recupero?
«Esatto. Così come la prima televisione commerciale nacque nella cantina di casa nostra da un residuato bellico, una scatola della Rca contenente sette tubi da ripresa, che acquistai per 400 lire da un rigattiere di via Cigna. Allestimmo uno studio con telecamere e mixer video. Tre ore di programmazione ogni sera, a partire dalle 19. Conservo ancora l'autorizzazione a trasmettere rilasciataci dal ministero delle Poste e Telecomunicazioni. I negozianti di via Po avrebbero voluto comprare gli spot. L'esaltante esperienza venne fatta cessare d'imperio dai nostri genitori dopo che avevamo perso l'anno scolastico per dedicarci a quest'avventura».
Com'è riuscito a scoprire che l'intercettazione eseguita nel bar Mandara era stata manipolata?
«Ascoltandola micron per micron. Vede, per essere attendibile, un'intercettazione ambientale deve iniziarsi e concludersi senza interruzioni. E quella annunciata come decisiva nel processo a carico di Berlusconi e Previti presentava invece una sospensione, che avrebbe potuto essere di pochi secondi o di ore. L'interruzione fu confermata da un esperto che operava per Cia, Fbi e Dipartimento del Tesoro americano. Scoprii anche che la registrazione consegnatami dal pm Boccassini non era di seconda generazione, bensì di terza».
Che significa?
«Che non era stata ottenuta dall'originale, mai rintracciato, ma da una copia. Tralascio, per carità di patria, ogni commento sul Cd-rom contenente l'intercettazione che il maresciallo Daniele Spello, collaboratore del pubblico ministero, avrebbe spezzato serrando le ginocchia per non farlo piombare sul pavimento. Noi periti non riuscimmo a rompere un compact disc neppure usando le mani. E, nonostante vari tentativi, nessuno fu così pronto di riflessi da bloccarlo fra le proprie gambe mentre veniva lasciato cadere al suolo».
Perché le intercettazioni penalmente irrilevanti non si distruggono subito?
«Per il dubbio che lo diventino in futuro. Da questo punto di vista ritengo che la Procura di Palermo sia stata diligente nell'aspettare prima di distruggere quelle in cui per caso fu registrato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al telefono col senatore Nicola Mancino».
In fase di trascrizione sono possibili errori e alterazioni?
«Certo. Mi capitò d'esaminare un'intercettazione fra due soggetti trascritta così: “Senti, vieni da me?”. L'altro rispondeva: “(Interferenza). Vengo”. Ma quell'interferenza, anatomizzata in profondità, nascondeva un “non”.

La trascrizione corretta fu: “Non vengo”».
Chi passa ai giornali i verbali delle intercettazioni, secondo lei?
«Dicevano i latini: “Cui prodest?”. A chi giova che finiscano sui giornali?».
(636. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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