Politica

Il Grande Sconfitto che in cento giorni ha suicidato la sinistra

diL a più facile campagna elettorale di sempre si è risolta nella più clamorosa sconfitta politica della storia repubblicana: il dramma - politico, umano, psicologico - di Pier Luigi Bersani, il Grande Sconfitto, sta tutto qui. Ed è destinato a far esplodere molto rapidamente un partito che, nei mesi scorsi, ha nascosto dissensi e lacerazioni sotto il tappeto proprio perché convinto dell'imminente, travolgente vittoria.
Il Grande Sconfitto s'era preparato per tempo all'impresa: da quel 25 ottobre 2009 in cui le primarie interne avevano ratificato l'accordo fra i capicorrente, incoronandolo segretario del Pd. Da allora, da che è diventato segretario, il Grande Sconfitto ha lavorato scientificamente, caparbiamente, orgogliosamente alla propria disfatta. Ripercorrerne i passaggi non toglie nulla alla clamorosa rimonta di Berlusconi, dato per morto e sepolto da avversari, amici, alleati e scienziati vari della politica: ma certo aiuta a capire come l'artefice principale della vittoria del Cavaliere - a parte il Cavaliere stesso - sia stato proprio lui, il Grande Sconfitto.
Per anni Bersani ha rincorso l'accordo con l'Udc di Casini (cancellato ieri da Montecitorio) tenendosi stretto a Vendola, nel tentativo di costruire una coalizione capace di conquistare i voti moderati e senza capire che i moderati (o comunque li vogliamo chiamare) si conquistano con politiche liberali e riformiste, e non, invece, con la subalternità alla Cgil e il corteggiamento di Casini. Non solo: Bersani ha flirtato a lungo con Di Pietro, abbandonandolo soltanto quando gli attacchi dell'ex pm al capo dello Stato hanno spinto lo stesso Napolitano a chiedere una scelta netta. E sul piano delle politiche economiche e sociali non ha mai saputo sottrarsi all'abbraccio mortale di Camusso e Landini, ai loro veti e alle loro bizze ottocentesche.
Poi è arrivata la caduta di Berlusconi: non causata dal Pd, e neppure dalla scissione di Fini, ma dalla crisi finanziaria e del debito pubblico (e poco importa qui stabilire se la crisi fosse vera, o pilotata da qualche cancelleria europea). Fatto sta che, alla caduta del nemico pubblico numero uno, il Grande Sconfitto non ha fatto l'unica cosa che un leader responsabile, e soprattutto sicuro delle proprie ragioni, avrebbe fatto: chiedere, e ottenere, le elezioni anticipate. Al contrario, Bersani ha accolto Monti a braccia aperte (salvo poi sabotarne in Parlamento le riforme liberali), è entrato in maggioranza con il Giaguaro rompendo con l'alleato Vendola, e ha così dimostrato agli elettori di non essere in grado di affrontarne a viso aperto, e nei tempi giusti, il giudizio.
Ma è soprattutto con Matteo Renzi che il Grande Sconfitto ha compiuto il suo capolavoro autolesionista. I quattordici mesi di Monti dovevano servire ai partiti, e segnatamente al Pd, per rimettere un po' d'ordine al proprio interno, per rinnovarsi, per offrire volti e proposte nuove ad un elettorato giustamente sempre più insofferente, quando non apertamente disgustato. Il sindaco di Firenze avrebbe rappresentato una rottura radicale con la tradizione del Pci-Pds-Ds-Pd e con l'intera Seconda Repubblica, in termini anagrafici, politici, culturali: e avrebbe facilmente raccolto un consenso trasversale. Con Renzi in campo Berlusconi si sarebbe occupato di ospedali in Africa, Monti non sarebbe mai «salito» in politica, e Grillo con ogni probabilità avrebbe preso la metà dei voti.
Con un tale asso in mano, persino un dilettante sarebbe riuscito a vincere il campionato mondiale di poker. E invece Bersani che fa? Concede generosamente le primarie al sindaco di Firenze, ma le blinda con un regolamento tardosovietico che, di fatto, impedisce di votare agli elettori meno vicini al partito e al suo apparato. Il risultato così diventa scontato: e, infatti, Bersani vince le sue primarie con i voti di Vendola e senza i voti degli italiani. I quali però domenica e ieri sono andati a votare.
Chissà se davvero - come ipotizzava ieri pomeriggio un renziano di passaggio al Nazareno - il Cavaliere manderà al Grande Sconfitto un gigantesco mazzo di rose, per ringraziarlo dell'impresa. Di certo dal suo partito non verranno omaggi floreali. Eppure l'intero gruppo dirigente del Pd (con l'eccezione, naturalmente, di Renzi e di pochi seguaci) si è chiuso a riccio intorno al segretario, mostrando almeno all'esterno una coesione granitica, come mai era avvenuto in questi anni. Di più: si può senz'altro dire che Bersani è riuscito a rendere l'«amalgama mal riuscito» una zuppa relativamente omogenea, approfittando delle primarie per pensionare Veltroni e D'Alema (a proposito: tenetelo d'occhio), promuovendo una generazione di abatini tutti uguali, eliminando o silenziando i dissidenti.
Ma proprio questo apparente successo è tra le cause non secondarie della sconfitta. Diciamo la verità: Monti ha avuto ragione nel dire, con una battuta, che il Pd è nato nel 1921. L'immagine con cui il Pd - bisognerebbe anzi dire il Pd-Sel, perché anche Vendola è stato risucchiato nel brodino bersaniano, e ha pagato per questo un prezzo salato - si è presentato agli elettori è stata quella dei Progressisti di Occhetto, per non arrivare al Fronte popolare di Togliatti: una sinistra-sinistra, legata a doppio filo al sindacato, trincerata a difesa del lavoro dipendente, conservatrice nelle politiche sociali, economiche e istituzionali. Come se vent'anni di Seconda repubblica non ci fossero mai stati, come se l'Italia non fosse mai cambiata. Imprigionato nella gabbia antica che si è costruito in questi tre anni, il Grande Sconfitto ha infine condotto una campagna elettorale del tutto particolare, offrendo al pubblico un mix di understatement e arroganza. «Noi non facciamo promesse», andava dicendo Bersani da ogni schermo televisivo (salvo poi farle lo stesso, ma un po' meno scintillanti di quelle di Berlusconi), e intanto spiegava che la vittoria della sinistra era ormai certa, che l'Europa non attendeva altro, che l'accordo con Monti in un modo o nell'altro si sarebbe fatto, e che chi osava mettere in discussione questi fatti era un populista, un demagogo e un imbroglione. È andata in un altro modo.

E al Grande Sconfitto ora non restano che le dimissioni.

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