Politica

I finti nuovi

Fini ha persino il coraggio di definirsi una "novità", ma è in Parlamento da 30 anni. E Monti e Ingroia manovrano nell'ombra come nella Prima Repubblica

I finti nuovi

Una riverniciata veloce col pennello del marketing elettorale per rigirare il vecchio come nuovo. E un passo di valzer con le scarpe logore di scaltre alchimie per soffocare il nuovo con il vecchio. Gianfranco Fini, Mario Monti e Antonio Ingroia. Storie diverse, risultati che guardano all'indietro. Ai tempi in cui la competizione si giocava anche e soprattutto sui trucchi, sugli accordi, sulle desistenze. Ecco, la parola desistenza non dovrebbe esistere nel vocabolario di chi vuole innovare, di chi addirittura sale, come Monti, nell'emiciclo della lotta e di chi, vedi Ingroia, non vuole avere a che fare con la passata nomenklatura, tanto che rifiuta persino di considerare il suo movimento un partito. E invece Arancioni e Lista civica nuotano nella palude degli accordi più o meno sottobanco, dei calcoli fatti a tavolino, delle segreterie che disgiungono, sdoppiano, tirano con l'elastico della convenienza i voti. Certo, i leader, Monti e Ingroia, smentiscono inciuci di qualunque genere, ma nella pancia della formazione montiana e nel ventre degli ingroiani il dibattito è avviato. E anzi, è già avanti.
Certo, meglio il nuovo che s'impiglia nella rete a strascico delle logiche passate che il tentativo, surreale, di Gianfranco Fini di coniugarsi al futuro, resettando una storia lunghissima. Il leader di Fli, alle spalle una militanza missina e l'esperienza di An, poi tutta la stagione berlusconiana, ora la spara davvero grossa: «Insieme a Grillo siamo l'unica novità. Senza di noi sarebbe un film già visto». Ci mancherebbe, il partito montiano è qualcosa di originale nell'affollato parterre, ma ci vuole una certa temerarietà per affermare quel che stride: «Siamo con Grillo l'unica novità». Fini è in Parlamento da trent'anni, dai tempi dei dinosauri democristiani e socialisti, prima del crollo del Muro di Berlino e della fine della Prima Repubblica e prima di tutto. Ma non teme la sfida alla legge di gravità, che lo ancora a quei ricordi lontani, e si butta in avanti. Lui che col suo partitino è salito al volo sul carro montiano e così si dovrebbe, il condizionale è sempre d'obbligo, garantire il ripescaggio, pur rimanendo largamente sotto l'asticella del 2 per cento, come «migliore dei peggiori» nella coalizione.
Ci sono diversi trucchi, nel cilindro del Porcellum, per sfuggire ad un destino di irrilevanza e Fini ha fatto i suoi conteggi. Come un ragioniere che conosce a memoria il copione e i suoi punti deboli. Potrebbe almeno risparmiarci l'autospot che vuole essere frizzante e sa di muffa. Come rimanda ai corridoi popolati dai fantasmi del pentapartito la discussione in corso fra i colonnelli montiani. Eccolo, il nuovo che avanza spavaldo. Al dunque, prima Ilaria Borletti Buitoni e poi tanti altri candidati e non candidati hanno tranquillamente ammesso che loro nell'urna porteranno acqua al mulino di Ambrosoli. E pazienza per Gabriele Albertini, una delle tre punte del tridente schierato dal premier in terra lombarda. La tattica vince sulla strategia. Il retrogusto sull'emozione. L'apparato sul candidato. Monti, naturalmente, afferma che il voto disgiunto è un «suicidio politico, danneggia non soltanto Albertini, ma anche me». E però la tendenza è quella.
Pare un gioco delle parti, o forse no. Non importa. La percezione è quella. I montiani frequentano la penombra e tessono accordi pur di raggiungere l'obiettivo. Intendiamoci, no c'è da scandalizzarsi, basta che si sappia che la Lista civica, dopo aver selezionato e riselezionato la classe dirigente e le facce e i loro curricula, si appoggia dove conviene. Sulle spalle degli altri.
Anche dalle parti del movimento Arancione il processo è lo stesso. Votare Ingroia e la sua rivoluzione e tutta la retorica che viaggia sul suo variopinto convoglio: sì, ma solo alla Camera. Al Senato no, a Palazzo Madama si aggira il pericolo chiamato Berlusconi, sempre quello da vent'anni, e allora primavere e germogli e cieli tersi d'ingenuità cedono il passo alla necessità, al voto utile, al ragionamento freddo sul male minore che ne eviterebbe uno ben più grave. Anche Ingroia nega e anzi ha denunciato il tentativo della casa madre di farlo desistere. E però dalla Sicilia alla Lombardia tanti militanti di peso hanno già annunciato che faranno un passo a lato. E si tureranno il naso barrando il simbolo del Pd. Manovre all'antica, altro che rivoluzione.

In virtù del Porcellum un partito che si presenta in coalizione entra in Parlamento con il 2% dei voti e non con il 4%, percentuale richiesta se corresse da solo. I sondaggi su Fli dicono che è ormai sotto la soglia dell'1% (0,8% nelle previsioni più ottimistiche). Epperò un cavillo della legge elettorale può ripescare Fini&Co. Infatti il primo partito all'interno della coalizione che non raggiunge il 2%, elegge comunque deputati se il raggruppamento supera l'8%. Con Scelta civica al 9-10% e l'Udc al 4-5%, il gioco è fatto.

La strategia della desistenza alle elezioni consiste nella volontaria esclusione di un partito dal complesso delle liste, per favorire una sola o altre presenti. Naturalmente questo può avviene nel caso in cui ci sia un patto preventivo tra partiti concorrenti.

Dalla teoria alla pratica: Ingroia a parole tiene duro rispetto alle «avances» dei democratici; in realtà, alcuni suoi sostenitori, sindacalisti e giustizialisti in testa, si dicono pronti a votare per Ingroia alla Camera e per Bersani al Senato nelle Regioni in bilico.

Commenti