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I quasi invulnerabili Baù una stirpe di buon cuore

Il primo Baù che s'incontra, provenendo da Asiago, è un cognome dipinto a lettere cubitali su un rimorchio parcheggiato ai bordi della strada, che precede la segnaletica verticale di Stoccareddo, frazione del Comune di Gallio gemellata con Ugine, paese della Savoia dove vivono quasi più Baù che francesi. In piazza, a lato della chiesa, si erge il cippo ai caduti della Grande guerra. Il primo sulla lapide è Baù Angelo fu Bortolo, sergente. Segue una sfilza di soldati semplici: Baù Angelo Gioacchino di Angelo, Baù Angelo Leone fu Michele, e poi Baù Antonio, Baù Domenico, Baù Luigi, Baù Marco, Baù Natale, Baù Virginio...
«Ho calcolato spannometricamente che i Baù sparsi per il mondo dovrebbero essere 15.000», dice Amerigo ovviamente Baù, lo storiografo dei Baù, ai quali ha già dedicato due libri: Stoccareddo, il paese dei Baù e I Baù in fotografia. E quando dice «mondo» intende non soltanto l'Italia - ci sono Baù a Gallio, Foza, Roana, Conco, Lusiana e nell'intero comprensorio di Asiago, ma anche nel Delta del Po, sul Montello, in Piemonte e in Friuli, con sporadiche presenze da Vipiteno fino a Bari - bensì i cinque continenti, e specialmente Brasile, Argentina e Australia. Tutti Baù oriundi di Stoccareddo, o figli, nipoti e pronipoti di Baù partiti da questa piccola frazione dell'altopiano dei Sette Comuni, in provincia di Vicenza. Uno Joseph Baù, originario di Cracovia, fu deportato nel campo di concentramento di Plaszow e lì sposò l'ebrea Rebecca, che lavorava con lui nella fabbrica di Oskar Schindler, l'imprenditore tedesco della famosa lista celebrata nel film di Steven Spielberg: ha finito i suoi giorni ultraottantenne a Tel Aviv nel 2002, da uomo libero. In quello stesso anno è morto in Pennsylvania, dov'era nato nel 1922, anche Guerrino Baù, figlio di Giovanni, che era emigrato negli Stati Uniti da Sasso di Asiago: fece parte dei primi paracadutisti lanciati oltre le linee tedesche durante lo sbarco in Normandia, uno dei quali rimasto impigliato sul campanile di Sainte-Mère-Église. Piccolo dettaglio: con lui nel D-Day scesero dal cielo altri 6 Baù per riportare la pace in Europa. «Nel 1942 il governo americano stava per inviarlo come agente segreto in Italia, ma Guerrino si rifiutò per motivi di coscienza: non voleva fare la spia», informa Amerigo Baù, al quale la storia è stata raccontata dal fratello del defunto, monsignor Luigi Baù, 89 anni, oggi residente a Pergola, nelle Marche.
Stoccareddo, capitale dei Baù, fa 238 abitanti (110 anni fa erano 428). Di questi, 184 portano il cognome Baù (il 77,31 per cento). Per secoli i Baù si sono sposati con altri Baù. Quindi, per distinguersi fra loro, hanno sempre fatto ricorso a soprannomi. I più diffusi, come lo storiografo dei Baù ha documentato a partire dal 1819, sono Perin, Bragola, Mitterle, Platenar, Ronar, Gasparin. Lui, Amerigo Baù, 68 anni, ex impiegato della Telecom in pensione da 10, è detto Cadorna, nomignolo che il nonno Angelo, classe 1878, s'era guadagnato nel 1915, quando il capo di stato maggiore Luigi Cadorna lo richiamò alle armi a Bassano del Grappa per istruire le reclute della prima guerra mondiale.
Amerigo Baù, incredibile a dirsi, non ha sposato una Baù. Sua moglie, abruzzese, si chiama Maria Di Pietro. Nessuna parentela con l'ex magistrato nonché ex presidente dell'Italia dei valori. L'ha conosciuta in Svizzera, dove, come tanti Baù, è stato emigrante per cinque anni. Lavoravano insieme in una centrale telefonica a Berna. Hanno due figli.
Il pensionato della Telecom è fra i più attivi nell'organizzazione del raduno triennale dei Baù. Alla prima edizione, nel 1996, dal solo Comune di Taglio di Po (Rovigo) giunsero ben 37 Baù: «Noleggiarono un pullman». Per la nona, il 3 e 4 agosto scorsi, a Stoccareddo ne sono arrivati 1.100 da ogni parte del globo. La Baù più piccola, Camilla, aveva 8 mesi. Il Baù più anziano, Marco, 102 anni. Da Este (Padova) è arrivata Federica Baù, che ha interpretato il ruolo di Aurora Marin bambina nella miniserie Bakhita, la santa africana trasmessa da Rai 1. Fra i compiti di Amerigo Baù vi è quello di scovare un Baù prete che celebri la messa in occasione della rimpatriata, perché da quattro anni Stoccareddo è senza prevosto. L'ultima volta è riuscito a rintracciare un don Giovanni Baù, parroco a Noventa di Piave (Venezia). Quel giorno i più ardimentosi sono scesi fino al santuario della Madonna del Buso, così chiamato perché si trova al fondo della Val Frenzela, una gola stretta e selvaggia. Un tempo mogli e morose dei Baù emigranti lo raggiungevano a piedi nudi per impetrare dalla Vergine il ritorno in Italia dei loro cari.
«Il meeting triennale dei Baù riveste un'importanza scientifica straordinaria, perché consente la prosecuzione della ricerca genetica avviata nel 2005 dal professor Giuseppe Baschirotto e dalla moglie Anna, fondatori dell'Istituto malattie rare di Costozza di Longare intitolato alla memoria del loro figlio Mauro, ucciso nel 1987, a soli 16 anni, da una sindrome rarissima e allora sconosciuta, la poliendocrinopatia autoimmune con candidiasi e displasia ectodermica», spiega Amerigo Baù.
Vi siete sottoposti anche quest'anno ai prelievi di sangue?
«Come sempre. Stoccareddo è uno dei pochi isolati genetici d'Italia, insieme con alcuni centri abitati del Cilento, della Sardegna, del Friuli e della Val Borbera in Piemonte».
Quali sono le caratteristiche di un isolato genetico?
«Un basso numero di fondatori, ipotizzabile dall'uniformità dei cognomi; un elevato tasso di endogamia, cioè di matrimoni all'interno del paese; la scarsa emigrazione e immigrazione; la localizzazione geografica, per lo più montana, con poche vie di comunicazione; le barriere linguistiche. Ciò determina un Dna con ridotta variabilità fra i diversi soggetti che appartengono al gruppo. Per mezzo millennio Stoccareddo è rimasto separato dal resto del mondo, quindi si presta allo studio dei fattori genetici e ambientali che proteggono da malattie complesse, quali diabete, ipertensione, cancro. Però non si metta anche lei a scrivere che qui scoppiamo di salute e non moriamo mai».
Non lo farò.
«Ci siamo un po' stufati della canea montata sul “paese dei tutti sani” dai media stranieri, Sunday Telegraph, Cbs e Nbc in testa. Sa come ragionano gli americani: basta dirgli che possono magnàre e bèvare a volontà, lori xe contenti».
Però è vero che qui mangiate e bevete senza troppi patemi.
«L'aspetto più rilevante evidenziato dalle ricerche dell'Istituto malattie rare Mauro Baschirotto è che i Baù, nonostante un'alimentazione molto grassa, tipica delle zone di montagna, sembrano immuni dai danni cerebro-cardiovascolari. Intendiamoci, non è che colesterolo, trigliceridi e diabete qui siano bassi. Ma le conseguenze appaiono più benigne. Esempio: su 700 Baù presi in esame fra Stoccareddo e Sasso di Asiago, stando alla media italiana avrebbero dovuto registrarsi negli ultimi 40 anni almeno 15 ictus».
Invece quanti ce ne sono stati?
«Uno solo. Idem gli infarti: l'unico che ricordi è quello che lo scorso anno ha colpito nel sonno una cinquantenne».
Lei che cosa mangia?
«Carne di maiale. Ho un debole per costine, salsicce e soppressa. Poi formaggio Asiago. Anche la tosella. La trovo fresca tutti i giorni dopo le 11 al caseificio Pennar. Ottima fritta nel burro o nell'olio».
Vino?
«Due bicchieri a pasto, cabernet o merlot. Resentìn con grappa dopo il caffè».
Come sta a colesterolo e trigliceridi?
«Nella norma. Come la pressione. Ma per quella prendo la pastiglietta».
Mantiene la dieta dei suoi antenati.
«Dei Cimbri, arrivati sull'altopiano di Asiago dalla Baviera e dal Tirolo intorno all'anno 1000. Bau in tedesco significa costruzione. Pare che il nostro ceppo, formato da boscaioli e pastori, sia giunto dalla Danimarca nel 1400. Nell'archivio comunale di Valstagna ho rintracciato un atto da cui risulta che a Stoccareddo nel 1502 vivevano 5 famiglie Baù e 6 famiglie Marini».
Eravate minoranza.
«I Marini abitavano in contrada Zaibena e da lì furono mandati in Sardegna a bonificare le paludi dell'odierna Arborea, fondata nel 1928 col nome di Villaggio Mussolini. Fra loro c'erano gli antenati dell'attrice Valeria Marini, sarda per parte di madre».
Se per cinque secoli siete rimasti una comunità chiusa, com'è che oggi vi sono Baù in ogni angolo del globo?
«Con la Reggenza dei Sette Comuni, la Repubblica di Venezia garantiva a queste terre grande autonomia. Caduta la Serenissima, la federazione fu soppressa da Napoleone nel 1807. Cominciò un periodo di miseria. I Baù scendevano a valle per fame. Mio nonno Angelo a 12 anni fu costretto ad andare con lo zio in Ungheria a costruire strade e ferrovie per l'impero asburgico. Unica condizione per essere arruolati: possedere carriola, piccone e badile. Nel 1875 la prima famiglia Baù emigrò nel Rio Grande do Sul, in Brasile. Nel 1906 i Baù partirono per Bendigo, in Australia, dov'era cominciata una corsa all'oro che in pochi decenni portò all'estrazione di 2.500 tonnellate di metallo prezioso, compresa una pepita che pesava 78 chili».
I Baù che rimanevano a Stoccareddo si sposavano fra loro?
«Dei miei cinque fratelli, solo Ettore ha sposato una Baù. E nell'archivio parrocchiale di Gallio ho rinvenuto appena tre dispense vescovili, risalenti al 1800, per matrimoni con impedimenti di consanguineità. Questo perché la Repubblica veneta autorizzava i pastori a scendere con le greggi lungo la riviera del Brenta durante la brutta stagione e a valle i Baù incontravano le ragazze da sposare».
Insomma, vi siete incrociati bene.
«Infatti a Stoccareddo non si riscontrano disabilità e malattie genetiche tipiche delle unioni fra parenti. Anche perché a partire dal 16 maggio 1916, e per cinque anni, la popolazione fu deportata altrove e ciò contribuì all'instaurarsi di legami al di fuori della comunità».
Effetti della Grande guerra.
«Esatto. L'attacco austroungarico era cominciato il giorno prima nell'ambito della Strafexpedition. È passato alla storia come la Battaglia degli altipiani: fino al 27 giugno mieté 230.000 vite. Per Stoccareddo fu l'inizio del profugato. La gente fuggì senza nemmeno mungere le vacche e raccogliere le uova. Vi furono Baù che finirono in Sicilia, ospitati dalla prefettura di Palermo o a Misterbianco, sulle pendici dell'Etna. Un esodo doloroso che Emilio Lussu descrisse nel libro Un anno sull'Altipiano: “I contadini allontanati dalla loro terra erano come naufraghi. Nessuno piangeva, ma i loro occhi guardavano assenti. Era il convoglio del dolore. I carri, lenti, sembravano un accompagnamento funebre”».
Ma ora i Baù tornano a casa.
«Il primo incontro, nel 1996, fu regionale. Eravamo in 600. Le proteste degli esclusi furono così vibranti che dalla successiva edizione divenne internazionale. Arrivano Baù dell'Australia che si esprimono solo in inglese e Baù del Brasile che invece parlano ancora il nostro dialetto. Da Santa Maria, la cittadina dello Stato di Rio Grande do Sul dove a gennaio 230 ragazzi hanno perso la vita nel rogo di una discoteca, sono giunti tre fratelli Baù, tutti medici, col loro papà. E poi un Marco Baù, marinaio poliglotta, da Oslo, in Norvegia. E un Henning Rudolf Bau, senza l'accento, ingegnere sessantenne di Norderney, la terza delle Isole Frisone orientali, già al suo secondo raduno, che è riuscito a ricostruire l'albero genealogico di famiglia fino alla metà del 1600: nove generazioni di Bau, per lo più missionari protestanti, arrivati in Germania dalle cittadine danesi di Haderslev, Aabenraa e Christiansfeld e da lì emigrati poi fino in Sudafrica e nel Suriname. A Haderslev vivono ancora quattro famiglie Bau».
Ma lei crede al gene protettivo che rende i Baù quasi invulnerabili?
«Credo nella serietà degli studi del professor Baschirotto e del suo team. La scarsa incidenza delle patologie cardiovascolari fa supporre la presenza di uno scudo protettivo nel nostro Dna».
Sia sincero, da quando sa di essere immune dai temibili effetti del colesterolo e dei trigliceridi, è più o meno controllato nel bere e nel mangiare?
«Né più, né meno: uguale. Faccio la vita di sempre, che comprende sci di fondo e due scarpinate settimanali, perché sono convinto che sia l'ossigenazione il miglior modo per prevenire le malattie».
Quindi di che cosa pensa che morirà? Il più tardi possibile, si capisce.
«Quasi quasi sarebbe preferibile non avere alcun gene protettivo. Che c'è di meglio di un bell'infarto e via?».
(668. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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