Roma - «Non ci stiamo e non ci staremo, ad una campagna elettorale fatta di politicismi e cabaret: io, Monti, le desistenze, il Senato... E non dirò qualsiasi cosa solo per avere un titolo, non ci spaventa restare senza luminarie». Strappa applausi scroscianti, Pier Luigi Bersani all'Ambra Jovinelli (strano posto per inveire contro il cabaret, «quando il luogo è il messaggio», fa notare il candidato montiano Mario Sechi su Twitter), ma il segnale non è rivolto solo ai giovani piddini in platea. È rivolto anche ai molti, nel partito e nella sua dirigenza, che gli esprimono da giorni le loro preoccupazioni e il loro allarme.
Per una campagna elettorale che è «in incredibile ritardo», come dice uno degli spin doctor della comunicazione Pd, la cui scena è requisita almeno da una settimana dallo scontro Berlusconi-Monti che lascia in ombra il candidato premier del centrosinistra, e i cui primi tentativi mediatici non sembrano fare centro: ieri sul web era un'esplosione di battutacce («Che è, un necrologio?») sullo spottone elettorale messo online dal Pd, tutto costruito attorno alle immagini dei bagni di folla di Bersani con il sottofondo di Gianna Nannini: «Mi ricorderò di te». E per una certa qual confusione che pare regnare, ad un mese dal voto, su strategie politiche e alleanze. Perché la contemporanea trattativa con Monti e con Ingroia, (che dice «noi siamo alternativi al montismo»), rischia di creare più di un problema di identità agli elettori del Pd.
Ieri il premier (e anche il Pd) si sono affrettati a smentire la notizia di un colloquio Bersani-Monti in cui sarebbe stata siglata l'intesa: niente attacchi reciproci in campagna elettorale, il nemico comune è il Cavaliere, e dopo il voto si marcerà uniti in Parlamento. Ma intanto la notizia è uscita (confermata da una Camusso insolitamente tenera con il Prof: «La responsabilità della crisi non è di Monti»), e in contemporanea sono uscite le ambigue avance dell'ex pm dei Due Mondi, Ingroia. Il quale, nonostante sembri doppiato da Nino Frassica, ha dietro di sé l'astuzia politica di Di Pietro e i suggerimenti di un ex comunista come Oliviero Diliberto; e dissemina trappole sul cammino del Pd. Il partito di Bersani vuole un accordo con la lista di Ingroia, per salvare la pelle al Senato in alcune regioni chiave in cui non sta messo bene (Campania e Sicilia, dove i sondaggi danno gli ingroiani intorno al 10%, in buona parte sottratto al centrosinistra; mentre in Lombardia e Toscana sfiorerebbe l'8% e in Piemonte il 7%) ma lo vuole sottobanco, perché «altrimenti il Quirinale ci incenerisce in campagna elettorale», come spiega senza giri di parole un dirigente bersaniano di primo piano. Ingroia chiede invece un patto esplicito («non facciamo cose dietro le quinte»), con annesso riconoscimento politico, e fa arrivare al Pd la sua controproposta: «Noi non ci presentiamo al Senato, e voi ci garantite un eletto in ogni Regione». Ossia 20 senatori (al posto dei 2-4 che potrebbero scattare autonomamente, e dei tre che il Pd aveva offerto, con la mediazione di Sel), che diventerebbero determinanti per il governo e per eleggere presidente del Senato e presidente della Repubblica, due caselle essenziali per i futuri equilibri.
Tanto essenziali da essere, si dice, il piatto forte dell'offerta fatta al premier Monti. Il quale, secondo la versione di alcuni ben informati, avrebbe avuto dai suoi interlocutori Pd proposte quasi offensive dopo la sua discesa in campo, che tanto ha mandato in bestia i bersaniani: strapuntini di governo, l'indicazione del ministro ai rapporti con la Ue o poco più. Mentre dietro il recentissimo «patto di non belligeranza» col Professore ci sarebbe l'offerta di una poltrona ben più autorevole: quella di presidente del Senato. Che diventerà postazione cruciale in vista della partita per il Colle.
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