Roma - Non c'è pace per il taglio del cuneo fiscale o meglio, per le misure fiscali pro lavoratori dipendenti sponsorizzate dal Partito democratico. Rinviato a data da definire il taglio del cuneo vero e proprio, delle proposte di bandiera Pd sul fisco (un po' come l'Imu per il Pdl) è rimasto solo un taglio alle detrazioni. Una prima versione, recepita dal governo nella legge di Stabilità, è stata impallinata. Dava ai lavoratori poco più di una mancia, insufficiente anche per un caffè al giorno. Al Senato gli sgravi sono stati concentrati sui redditi più bassi, in particolare su quelli fino a 18mila euro, ma il taglio rischia di trasformarsi nell'esatto opposto di quello che dovrebbe essere.
Se verrà approvato così come è uscito da Palazzo Madama, avrà un effetto regressivo nel senso che colpirà chi ha poco, in particolare la classe media, alleggerendo chi ha di più.
Verrebbe da pensare a una improvvisa conversione alla Reaganomics del governo Letta. Più probabile che si tratti di una svista. Un errore segnalato, con molta discrezione, dalla Fondazione Nens (Nuova economia nuova società) di Pier Luigi Bersani e di Vicenzo Visco, quindi un centro studi saldamente democratico e non sospetto di simpatie per Forza Italia.
Ruggero Paladini, economista che ha lavorato nel gabinetto di Visco, in un paper intitolato significativamente «Cuneo, detrazioni Irpef e scaglioni. Fino a che punto il Parlamento è consapevole di quello che fa?», ha calcolato le aliquote effettive, cioè quanto effettivamente verrebbe prelevato dal fisco su determinati livelli di reddito se la riforma passasse così come è adesso. E ha scoperto che ad essere penalizzati sono i redditi tra i 28mila e i 35mila euro.
In sintesi: fino a 8.164 non si paga. La fascia successiva, fino a 15mila euro, considerando anche le detrazioni, ha una aliquota effettiva del 27,5% e quella tra 15 e 28mila del 31,5%. Basta guadagnare un euro in più e l'Irpef comincia a pesare dieci punti in più. Il 42,5% per la precisione.
Ma non basta. I redditi superiori a quelli compresi tra 28 e 35mila euro, pagherebbero meno imposte. Fino a 55mila euro, il 41,34%. Da 55 fino a 75mila euro, ancora meno anche se di poco: il 41%. Solo per i redditi superiori, da 75mila euro in poi, viene ristabilito il principio della progressività, peraltro sancito dalla Costituzione, con una aliquota reale del 43%.
Una distorsione, difficile da sanare. «Correggere questo difetto, introducendo formalmente lo scaglione da 28.001 a 35.000 per tutti i contribuenti e abbassando l'aliquota a 37% - spiega Paladini - costa un miliardo».
Un'alternativa poco costosa ci sarebbe. Si potrebbe tornare e rafforzare gli assegni al nucleo familiare dell'Inps. La platea, spiega l'economista del Nens, sarebbe più ridotta sia della proposta originaria del governo, sia di quella Pd firmata dalla senatrice Rita Ghedini. Questa strada, spiega Paladini, probabilmente è stata scartata perché agire sugli assegni significa fare crescere la spesa pubblica. L'Unione europea non sarebbe d'accordo e poco importa che l'effetto per i conti pubblici sarebbe lo stesso.
La proposta Pd ha infine un altro «serio difetto». Quello di «escludere circa quattro milioni di lavoratrici e lavoratori parasubordinati o part time che già oggi sono ad imposta netta nulla». Parola di economista di una fondazione vicina al Pd.
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