Politica

Ingroia e i guappi dell'antimafia-show

Da Zagrebelsky ai magistrati di Palermo, prima attaccano le istituzioni poi sono costretti a rimangiarsi la parola

Ingroia e i guappi dell'antimafia-show

Che tipi che sono, che guappi di cartone. Bisognerebbe lasciarli al loro destino di altezzosa ipocrisia, ha ragione Alessandro Sallusti. Ma non si può. Lavorano sodo al peggio, e da tanti anni. Inquinano senza remore una democrazia impazzita. Rieducano menti e sentimenti dei ragazzi a una specie di Rivoluzione culturale di cui il web è tra i principali campi di correzione. Poi nascondono la mano, si rifugiano dalla mammina, e prolungano il grande inganno. Gustavo Zagrebelsky, giurista di regime e di lotta, raduna al Palasharp di Milano folle osannanti con Eco, Saviano e un tredicenne che dà dello schifoso al presidente del Consiglio dal basso della sua innocenza talebana, infine accusa Napolitano di essere «il perno» di un'azione di intimidazione della Procura di Palermo che vuole la verità sulla mafia. Rimbrottato dai suoi, per una volta, replica imbarazzato e imbarazzante che lui non fa politica, che il consenso del Palasharp non è la sua materia, lui è un tecnico «ingenuo» che cerca il diritto e lo storto nelle cose, risparmiategli la responsabilità personale di quello che dice e la lotta politica.

E il dottore Antonio Ingroia? È violento, come spesso succede ai fanatici, querela chi dissente da lui, pluriquerele «per una serena vecchiaia» con risarcimenti decisi dai colleghi in corporazione. Fa comizi con le mani in tasca e la toga sotto i piedi, illustra alle masse la retorica del partigiano, partigiano della Costituzione che l'immonda maggioranza parlamentare forse voleva riformare, come la Costituzione stessa prevede a maggioranza semplice, naturalmente per motivi criminali dietro lo schermo della politica. Vive di conferenze, di talk show e di libri mal scritti, mielosi, vanitosi, in cui ricorda la stima che gli portava un magistrato martire, perché c'è sempre un morto che afferra il vivo e lo mette sul piedistallo del vero, del giusto e del buono. Ingroia dovrebbe essere da tempo fuori dalla magistratura, consegnato alla politica partitante dei suoi compagni sindaci e capipopolo da un Consiglio superiore, se ce ne fosse uno non democristiano, non doroteo, non mellifluo e sulfureo come lo sono da tempo tutti i consessi togati che dovrebbero vigilare sul prestigio del giudiziario.

Il dottor Ingroia si comporta in modo nocivo e fazioso. Alimenta un mito mediatico-giudiziario-politico, un'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia «che non si regge in piedi», come ha detto in tv perfino un Enrico Deaglio, che sull'antimafia cingolata ha scritto intere biblioteche di plauso e ammirazione. Decreta con l'aiuto di Santoro e compagnia, davanti a milioni di sprovveduti spettatori della Rai, che c'è un'icona dell'antimafia, il pataccaro figliolo di Vito Ciancimino, e pluricalunniatore, e che lui è in grado di rivelare la verità sulle stragi e sull'omicidio di Borsellino e della sua scorta. Indovinate chi sono gli utilizzatori finali delle stragi, chi c'è al culmine della ricostruzione fantasiosa e sghemba, capace di travolgere anche i carabinieri che hanno arrestato Riina? Berlusconi e Dell'Utri, ovvio. Il metodo, riassunto nell'eternizzato fascicolo «sistemi criminali», è quello di tenere sempre aperta la porta all'indagine che non finisce mai, che deve nutrire le ambizioni di riscrittura della storia patria di un pugno di magistrati incaricati di applicare la legge, e per chiari motivi politici. L'agenda rossa di Borsellino, agitata in piazza con disgusto sommo e tardivo perfino del direttore di Repubblica Ezio Mauro, vale la villa di Como di un senatore e amico dell'ex premier. L'accusa di concorso esterno in mafia, distrutta dalla Cassazione con una relazione Jacoviello in cui si dice con smarrimento che in quel processo tutto c'è tranne la definizione del reato, è il suggello, naturalmente destinato a fallire, dell'attività di giustizia alla Ingroia. Potrei continuare con la tecnica delle interviste del suo ufficio, del suo sodale, a Repubblica e al Fatto, in cui si rivela che la voce del capo dello Stato è lì a disposizione degli happy few in toga, dunque attenti tutti a quel che fate e che dite. Ma ora debbo fermarmi.

Infatti il procuratore aggiunto, che non convince a firmare le sue carte nemmeno il procuratore capo e i membri tutti del suo ufficio, sente la pressione di un'Italia che alla fine gli resiste, e anche lui, come Zagrebelsky, si ritrova alla Fracchia con i diti tutti intrecciati, chiede venia in un'intervista al Corriere e in un articolo sull'Unità, per carità lui è sereno, e tutti giù a ridere, per carità anche lui è un ingenuo che applica il diritto come giudica sensato, mica ce l'ha con alcuno, da Napolitano agli altri, no, lui fa il suo mestiere e basta, la sua carriera internazionale fino all'Onu e al Guatemala, la sua partita la gioca non grazie ma nonostante le strumentalizzazioni non sollecitate del povero giornale tribuna dei manettari, scaricato con tante scuse alla prima curva.

Un racconto di Leonardo Sciascia diceva che bisognerebbe essere uomini e invece spesso ci si ritrova ominicchi se non quaquaraquà.

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