Investimenti, la grande fuga dall'Italia

Nel 2007, anno di inizio della crisi finanziaria nel mondo anglosassone, gli investimenti esteri in Italia ammontavano a circa 29 miliardi e mezzo di euro. Era l'anno dei mutui «subprime» e delle banche americane che chiudevano, l'ondata di magra si non era ancora abbattuta su di noi. Ma nel 2013 il raffronto fa paura: l'anno scorso quel valore è precipitato a meno della metà. Secondo il Censis, che ha diffuso ieri il sesto numero del «Diario della transizione», gli investimenti diretti esteri in Italia sono franati a 12,4 miliardi di euro. Un crollo del 58 per cento. Gli stranieri sono scappati, hanno portato i loro soldi altrove. Il Censis rileva due picchi in questa fuga di capitali esteri: il 2008, quando tutta l'Eurozona è stata terremotata dalla crisi e gli investitori hanno preferito asset meno rischiosi in Paesi extraeuropei, e il 2012, quando a Palazzo Chigi sedeva Mario Monti.
Di chi sono le colpe di questa mazzata? Il centro studi presieduto da Giuseppe De Rita le individua in un complessivo «deficit reputazionale» che attanaglia il nostro Paese. Benché siamo ancora oggi la seconda potenza manifatturiera d'Europa e la quinta nel mondo, tuttavia l'Italia detiene soltanto l'1,6 per cento dello stock mondiale di investimenti esteri, contro il 2,8 per cento della Spagna, il 3,1 della Germania, il 4,8 della Francia e il 5,8 per cento del Regno Unito. «La reputazione è oggi un fattore decisivo per favorire la competitività di un Paese – si legge nella nota del Censis -. Ma l'Italia ha un deficit reputazionale accumulato negli anni a causa di corruzione diffusa, scandali politici, pervasività della criminalità organizzata, lentezza della giustizia civile, farraginosità di leggi e regolamenti, inefficienza della pubblica amministrazione, infrastrutture carenti».
Le cause sono dunque numerose e complesse. C'è senz'altro la corruzione che deturpa l'immagine del Paese e disincentiva chi volesse investire in Italia. I fatti portati alla luce dalle inchieste più recenti su Expo e Mose non aiutano certo a cancellare questa cattiva fama. Eppure la corruzione non è l'unica colpevole. Nel conteggio vanno inseriti gli scandali che coinvolgono la nostra classe politica. E poi la burocrazia e il disordine dell'amministrazione pubblica che stroncano ogni velleità imprenditoriale, l'invadenza della criminalità, la giustizia che non funziona, la giungla legislativa, la mancanza di infrastrutture. Non c'è nessuno che possa chiamarsi fuori dalle tonalità fosche di questa impietosa fotografia.
Il Censis elenca una lunga serie di indicatori secondo i quali l'Italia non sarebbe poi così malridotta. Abbiamo una quota del 2,7 per cento dell'export mondiale, siamo la quinta destinazione turistica al mondo dopo Francia, Stati Uniti, Cina e Spagna: ogni anno sbarcano più di 77 milioni di stranieri, con una crescita del 4,1 per cento dal 2010 al 2013. Oltre 20mila imprese a controllo nazionale sono localizzate oltre confine con 1,5 milioni di addetti e 420 miliardi di euro di fatturato.
Tra i punti di forza il Censis cita soprattutto il numero di giovani «own account workers», cioè lavoratori «under 40» in proprio e senza dipendenti: 1,3 milioni, primi in Europa. Sono altri i fattori che trasformano l'Italia in uno spauracchio per gli investitori.
Siamo al 65° posto nella graduatoria mondiale dei fattori che determinano la capacità attrattiva di capitali considerando procedure, tempi e costi necessari per avviare un'impresa, ottenere permessi edilizi, allacciare un'utenza elettrica business o risolvere una controversia giudiziaria su un contratto.
Per ottenere tutti i permessi, le licenze e le concessioni di costruzione, in Italia occorrono mediamente 233 giorni, in Germania 97.

Per allacciarsi alla rete elettrica servono 124 giorni in Italia e 17 in Germania.
E per risolvere una lite su un contratto commerciale la giustizia italiana impiega in media 1.185 giorni, quella tedesca 394.
Soltanto Grecia, Romania e Repubblica Ceca spaventano le imprese più di noi.

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