Io, vittima del fango di Repubblica & Co.

Le intercettazioni di Bisignani dimostrano l’ostilità del lobbista al Giornale, ma il quotidiano di Mauro sputa veleno contro la nostra direzione e l’inviato del caso Montecarlo, Gian Marco Chiocci

Io, vittima del fango 
di Repubblica & Co.

Caro direttore, perdonami se ti chiedo spazio sul Giornale in deroga, per una volta, dai miei articoli di cronaca giudi­ziaria. Ti chiedo scusa due vol­te perché, forse, queste righe avrei dovuto scriverle tanto tempo fa quando la categoria di cui facciamo parte ha inizia­t­o a mettere i buoni di là e i cat­tivi di qua. Per cultura, per educazione, perché ho respi­rat­o fin da bambino l’aria buo­na dei giornali e dei giornalisti di un tempo, ho sempre evita­to di prendermela coi colleghi di altre testate, pubblicare le loro intercettazioni (e sai quante ce ne sono, ad esem­pio, con colleghe che fanno sesso al telefono con i loro in­formatori), infierire sulle sin­gole disgrazie professionali, sui rapporti «oscuri» - direbbe­ro lorsignori - con le proprie fonti. Se mi è capitato di scrive­re di un collega, come per una vicenda minore che riguarda­v­a il bravo Marco Lillo del Fat­to , l’ho prima chiamato,mi so­no fatto dare la sua versione, e poi ho scritto.

Mi sono sem­pre rifiutato, e la finisco qui, anche di rivelare in redazione retroscena utili a chi si cimen­tava su questo o quel collega, che so, di Repubblica piutto­sto che de l’Unità . E sai per­ché? Perché non faccio finta di non sapere come funziona questo mestiere. Dei rischi a cui vanno incontro tutti: sia quelli, per dire, che hanno li­bero accesso alle stanze dei pubblici ministeri, sia a quelli che trovano sempre le porte chiuse e ne cercano, altrove, qualcuna aperta. Tutto ciò per venire al sotto­scritto, e al Giornale , oggetto in questi giorni di velenosi at­tacchi da parte di taluni «colle­ghi ». Parlo della questione P4. Parlo soprattutto della mia fre­quentazione professionale con una fonte (Luigi Bisigna­ni) che in tanti si sarebbero so­gnati di avere, e che più di al­tre fonti - almeno sulla carta ­poteva essere utile al mio lavo­ro, come peraltro la pubblica­zione di intere paginate di in­tercettazioni sulla sua rete di conoscenze ha ampiamente dimostrato.

Parlo dei miei ten­­tativi, quasi sempre andati a vuoto, spesso portati avanti sul filo della millanteria per ac­creditarmi al suo cospetto, di carpire notizie utili su questo o quell’argomento con colui che oggi tante persone (e quanti importanti giornali­sti!) fanno vergognosamente a gara a non conoscere. Ho sempre messo al corrente te, direttore, dei miei incontri con Bisignani. Così come ne erano a conoscenza svariati colleghi di testate molto lonta­ne dalla nostra - che ora non nomino ma che non hanno problemi a confermarlo - coi quali ho spesso cercato di far quadrare i brandelli di notizie che il lobbista mi dava. «Vai dall’amico tuo e cerca di capi­re se almeno lui ne sa qualco­sa » dicevano sornioni. Pro­prio così. Bisignani era una sorta di ultima spiaggia piena di bagnanti eccellenti che fa­cevano la fila per incontrarlo. Ed è vero che era depositario di un’infinità di informazioni, ma almeno con me, parlava tanto e, stringi stringi, spiffera­va poco. Perché? Leggendo le carte verrebbe da pensare, ma forse mi sbaglio, che un po’ mi riteneva responsabile del casino politico che avevo combinato con l’inchiesta su Fini e la casa di Montecarlo che lui stesso, a un certo pun­to, mi chiese (invano) di inter­rompere.

Bisignani si compor­tava amichevolmente con me, ma era soprattutto amico intimo di Italo Bocchino, par­lava male del Giornale («Sono dei pazzi») e bene con chi criti­cava Berlusconi e il Giornale stesso. Poi, però, leggi la stam­pa libera e ti accorgi che die­tro al Giornale , come dietro a Dagospia , c’era lo zampino maledetto di «Bisi». No, diret­tore, non è così. Da parte no­stra c’è sempre stato l’interes­se per la notizia, che non è buona o cattiva a seconda del­le convenienze o della prove­nienza. Una notizia, che te la serva il Papa (nel senso di San­to Padre non di Alfonso, l’ono­revole indagato) o Totò Riina, se vera e riscontrata, io la scri­vo.

Non la pensa così, evidente­mente, un giornalista di Re­pubblica : Carlo Bonini ( nella foto piccola ) letteralmente os­sessionato dal sottoscritto. Un tempo godeva delle luci della ribalta finché campava della luce riflessa di Giuseppe D’Avanzo da cui ha divorziato quando pure il vicedirettore coi baffi, evidentemente, s’è stufato del suo modo di fare. Un esempio di alto giornali­smo, quello di Carlo, fatto di bacchettate ai colleghi (an­che di scrivania incappati in incidenti di percorso), di fonti e di notizie sempre belle e puli­te, le sue. Ecco, questo Pulit­zer de noantri che quando si appassionò a Telekom Serbia trattò la materia come uno scoop mondiale, e quando la approfondimmo noi del Gior­nale ( subendo durissimi inter­rogatori e perquisizioni deva­stanti) paventò depistaggi e trame oscure, ha scritto di me ciò che tutti gli altri colleghi, per insussistenza della noti­zia, hanno evitato di riporta­re. Ieri, lo stesso scriba che fu intercettato indirettamente perché mandava avanti una giovane collega a parlare col giudice indagato Achille To­ro, ha colpito ancora.

Non gli sembrava vero d’avermi trova­to ancora nelle carte. Così ha riportato un verbale deposita­to dal pm Woodcock del «catti­vo » Giuliano Tavaroli della se­curity di Telecom, nel quale si dice che lui, Tavaroli, sapeva che io conoscevo Bisignani. Chapeau . Tante volte non lo sapesse, a proposito di Tavaro­li, la sua «ossessione» al Gior­nale ha rifiutato consulenze da decine di migliaia di euro, per improbabili studi su sce­nari geopolitici, che Tavaroli gli propose per interposta per­sona (e che il sottoscritto sde­gnatamente rifiutò). Se davve­ro fossimo un ingranaggio di questa fantomatica macchi­na del fango, che Bonini e altri come lui continuano a descri­vere, chissà quante ne avrem­mo pubblicate. Ricordi, diret­tore, quando qualche mese fa intervistai Licio Gelli sulla vi­cenda dei piccoli azionisti del­l’Ambrosiano (conversazio­ne registrata) con quei detta­gli indimostrabili su Gianfran­co Fini, riferiti dal Maestro Ve­nerabile, circa presunte «do­nazioni » al Msi? Decidemmo di cestinare il tutto, senza in­dugi.

E della macchina del fan­go contro la Boccassini ne vo­gliamo parlare? Non sarebbe stato più clamoroso, anziché occuparci del figlio coinvolto in una rissa a Ischia, pubblica­re gli atti di tribunale e i docu­menti antimafia sui gravi guai giudiziari del padre e dello zio di Ilda, entrambi magistrati? Per civiltà giuridica, oltre che professionale, ce ne siamo astenuti convinti come siamo che le colpe di padri e parenti non possano ricadere su figli e nipoti. A Repubblica si sareb­bero comportati così? E come si comporteranno i cronisti che oggi si scandalizzano del­la presunta ossequiosità di certa stampa a Bisignani quando da Caltanissetta usci­ranno, se usciranno, le tanto temute intercettazioni sui rap­porti confidenziali e vacanzie­ri di stimati giornalisti con tal Massimo Ciancimino? E poi, direttore, come non tornare sulla nostra innocua telefona­ta effettuata da un phone cen­ter romano - che tutti hanno potuto leggere - e che i magi­strati di Napoli incredibilmen­te definiscono di «straordina­ria gravità».

Marco Travaglio ha giusta­mente ironizzato (ho riso an­ch’io quando ho letto il suo pezzo) sulla sfiga di aver usato un centralino per immigrati sotto intercettazione per roba di droga. La spalla di Santoro si è poi divertita a scrivere che a forza di pensare che siamo tutti intercettati alla fine ci cre­diamo davvero. Forse Trava­glio non lo sa ma il sottoscrit­to, purtroppo, sotto intercetta­zione c’è stato per anni in nu­merose inchieste, è stato ripe­tutamente inquisito e perqui­sito solo per aver dato notizie. Non ricordo che altrettanto sia capitato a Marco, segno che la fortuna gli sorride e che solo per colpa di Peppe D’Avanzo son saltate fuori le sue frequentazioni estive con una persona condannata per mafia che tanto lo mandano in bestia quando qualcuno glielo ricorda. Va bene tutto.

L’ironia. Lo scherno. L’attac­co ai servi del premier. Ma quanto all’insinuazione che per una banale chiamata al di­­rettore il mio agire possa esse­re accomunato a quello di un apprendista spione al servizio di poteri occulti, beh, è trop­po.

Ecco perché Travaglio ne risponderà direttamente al­l’ordine professionale e in tri­bunale dove spero, per lui, si faccia difendere da un valente avvocato del Fatto Quotidia­no : Martino Umberto Chioc­ci. Mio zio.

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