Il giudizio sulla politica economica del governo Renzi soffre di una pericolosa distorsione che potremmo definire l'errore dell'«effetto placebo». È opinione diffusa tra molti commentatori che le mirabolanti promesse siano dovute a una propensione del presidente del Consiglio a un volontaristico ottimismo oltre che alla campagna elettorale, che ciò che ci viene offerto sia meglio di niente e che, quindi, la migliore reazione sia quella del stiamo a vedere cosa succede.
Non condividiamo questa opinione e pensiamo che la medicina degli annunci accoppiata a provvedimenti raffazzonati sia altamente pericolosa. Pensiamo infine che il ministro dell'Economia debba essere consapevole dei pericoli e imporre la dovuta chiarezza. Poiché queste affermazioni devono essere argomentate, partiamo proprio da quanto dichiarato dal ministro dell'Economia nell'ultima intervista al Corriere della Sera: il problema del debito è un problema di crescita. Correttissimo. Anche il problema dell'occupazione è un problema di crescita. In definitiva, il problema italiano è la crescita. La crisi dell'estate del 2011 derivava dai dubbi sulla capacità di crescita e, quindi, di sostenibilità del debito e non da una crisi della finanza pubblica che non esisteva. Ebbene da allora siamo entrati in una profonda recessione e la disoccupazione è esplosa. Il governo Monti dette la spinta decisiva, sbagliando tutto, dalla riforma del lavoro alla politica fiscale. L'Italia fu terrorizzata per circa un anno dall'annuncio di stangate fiscali ma in particolare fu tenuta in sospeso sul come, sul quando e, soprattutto, sul quanto, i proprietari di case sarebbero stati chiamati a pagare per salvare l'Italia. Il risultato fu che l'effetto precauzionale di fronte ad una minaccia incombente ma non definita paralizzò i consumi, il settore edilizio e tutta l'economia. Si ebbe il massimo del danno con il minimo dei benefici per le casse dello Stato. Con il governo Letta si è rischiato lo stesso effetto, nonostante fosse nato all'insegna programmatica dell'inversione di tendenza nel bilanciamento tra tasse e tagli di spesa.
Ma veniamo all'oggi. Renzi si appropria del governo in un momento fortunato. Lo spread è ai minimi storici per effetto del mutamento dei flussi mondiali di capitale che si spostano dai paesi emergenti all'Europa. L'Europa esce dalla recessione con una crescita debole, ma sufficiente per portare anche la crescita italiana fuori dal segno negativo. Le difficoltà crescenti della Francia e i pericoli di deflazione fanno pensare a un possibile fronte di paesi capaci di imporre un mutamento della politica di austerity. È quindi il momento di impostare una seria politica di crescita e questo è possibile anche senza sognare fughe in avanti rispetto agli impegni europei. Ma è questa politica che non c'è. Il Def (Documento di economia e finanza) lo documenta. L'effetto sulla crescita dei provvedimenti è sostanzialmente nullo. L'occupazione non migliorerà come non migliorerà il tasso di crescita per effetto dei provvedimenti sul bonus Irpef o sull'Irap, sia per la loro irrilevanza quantitativa macroeconomica sia perché l'effetto di domanda verrà compensato dai tagli della spesa pubblica, o dall'aumento di altre tasse, necessari a finanziarli. Gli unici effetti di crescita, peraltro modesti, sono imputati dal Def a una riforma del mercato del lavoro che, annunciata come immediata, è oggi rinviata al 2015 e dai contorni non più definiti.
Eppure, il quadro preoccupante delineato dal Def rischia di essere ottimistico, e non prudenziale come dichiarato dal ministro dell'Economia, se non muta immediatamente il segno e lo stile di questo governo. Sulla carta il bonus fiscale e lo sconto Irap dovrebbe essere compensato dalle coperture ottenute con tagli alla spesa pubblica e altri tipi di imposizioni fiscali. Il rischio tuttavia è che l'effetto non sarà neutrale per il semplice motivo che è ancora del tutto vaga l'entità e la composizione dei tagli di spesa e soprattutto i destinatari delle punizioni promesse e vagheggiate dal nostro battagliero premier.
La vera questione non è se questa spending review darà risultati, ma il fatto che da circa otto mesi si annunciano tagli, penalizzazione delle rendite finanziarie, chiusura di province e enti costituzionali, attacchi a caste privilegiate, spianamento delle burocrazie (ma che vuol dire?), criminalizzazione di intere categorie, avvertimenti più o meno intimidatori a organi dello stato che potrebbero obiettare qualcosa in tema di legittimità delle azioni di governo, e ciò non può non determinare una situazione generalizzata di attesa in tema di consumi e investimenti. Fino ad oggi si è sentito di tutto in tema di spending review, poco in realtà è accaduto. La politica degli annunci può determinare effetti espansivi o depressivi a seconda del loro segno, ma le esternazioni senza fatti appartengono oggi alla seconda categoria, perché per troppo tempo indeterminate e minacciose e quindi in grado di generare una diffusa reazione precauzionale nella spesa privata.
Le iniezioni limitate di potere di acquisto decise dal governo hanno copertura certa solo nelle clausole di salvaguardia ma gli effetti depressivi delle coperture promesse già sono in grado di paralizzare l'Italia anche se poi i fatti non seguiranno agli annunci.
Il ministro dell'Economia, essendo competente, queste cose le capisce, tant'è che continua a dire che spera che famiglie e imprese riprendano a spendere, ma dovrebbe spiegarlo al suo meno competente primo ministro. E non basta annunciare al rialzo sempre maggiori quote di rimborso dei debiti della Pa, rispetto ai già ampi programmi decisi dal governo precedente e non attuati. Poiché il problema non è di spazio di bilancio ma di capacità tecnica di certificare e rimborsare i debiti, anche ricorrendo all'intermediazione della Cassa depositi e prestiti.
In definitiva, il ministro dell'Economia sa che il problema del rilancio della crescita italiana non può non fondarsi che su un necessario doppio shock, dal lato della domanda e dal lato dell'offerta. Dal lato della domanda, la chiacchiera inconcludente del governo rischia di avere effetto complessivi negativi. Dal lato dell'offerta, dopo un inizio positivo rappresentato dal provvedimento del ministro del Lavoro Poletti, vi è il buio più completo, e ciò che appare e che, secondo antica prassi, si ricerchi il consenso di sindacati e Confindustria con piccole concessioni monetarie e non richiamando le parti a sottoscrivere riforme serie e immediate capaci di incidere sulla produttività del sistema.
Per essere più chiari, un accordo che muti un sistema che ha indotto la Fiat a uscire dall'Italia. In caso contrario, le previsioni disastrose sull'occupazione presentate dal Def saranno purtroppo confermate. E queste previsioni sono la vera palla al piede del governo nelle trattative europee.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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