L’INTERVISTA FIORENZO MAGNI

Cose che segnano la vita. Crepe invisibili, che mandano in frantumi anche i cristalli di Lalique. Grandi campioni dello sport, sorretti da un’invincibilità che sembra far parte dei loro cromosomi, nei quali ad un certo punto qualcosa si rompe: per cose che segnano la vita. Vuoi una separazione, vuoi un grave lutto. Campioni come Bartali e Coppi, uniti da un tragico destino. Uniti nella gloria, nella vittoria e nella storia, ma anche da quel beffardo destino che li rese entrambi «figli unici», loro malgrado. Entrambi corridori immensi, tra i più grandi ciclisti e sportivi di ogni epoca. Entrambi accomunati dalla perdita di un fratello, che ha messo in dubbio la loro carriera «direi anche la loro stessa esistenza», ci racconta Fiorenzo Magni, «il terzo uomo» del ciclismo mondiale, uno che con «quei due» ci ha dovuto fare parecchio e con «quei due» ha vissuto forse il momento più bello e romantico del ciclismo, che in quegli anni era lo sport per eccellenza.
«Entrambi sono stati davvero due campioni formidabili. Diversi caratterialmente, ma entrambi segnati per sempre e in maniera indelebile dalla perdita dei loro rispettivi fratelli».
Racconti...
«Giulio, fratello di Gino, giovane promessa del ciclismo morì il 16 giugno del 1936, dopo due giorni di agonia. Bartali aveva vinto da poco (il 7 giugno) il suo primo Giro d’Italia e lui il 14 decide di andare a correre a Firenze una gara di dilettanti. Sotto la pioggia battente, durante la Targa Chiari, campionato regionale dilettanti sbuca all’improvviso una Balilla nera lo prende in pieno all’altezza del fianco sinistro: si frattura la spalla, il bacino e le costole. Viene operato d'urgenza, ma il 16, senza aver compiuto vent’anni, muore».
Per Gino un colpo tremendo...
«L’Italia ha da poco imparato a conoscerlo e ad amarlo, ma rischia di perderlo sul nascere. Me lo ricordo bene: “Io non ce la fò”, mi ripeteva Gino, lui che era considerato un leone».
Chi riuscì a rimetterlo in sella?
«In verità di sella non scese mai, ma le difficoltà furono enormi. Fortunatamente a fine stagione si riprese, e vinse il Lombardia. Alla fine fece tutto da solo: addolorato, smarrito, subì il contraccolpo e passò mesi d’inferno e grande sbandamento, ma poi alla fine prevalse il suo carattere e quell’episodio lo fortificò, rendendolo ancora più campione».
Storia analoga quella di Fausto Coppi.
«Infatti, ma per Fausto fu ancora più difficile. Il 29 giugno si corre il Giro del Piemonte: a poche centinaia di metri dall'arrivo il fratello Serse urta con la ruota un altro corridore, cade e picchia la testa contro il marciapiede. Dopo pochi secondi si rialza, apparentemente senza aver subito nessuna grave conseguenza, ma due ore dopo in albergo inizia a lamentare forti dolori alla testa: viene chiamato un dottore e poi l'ambulanza che lo trasporta in una clinica. Ma è ormai troppo tardi: muore in conseguenza di una emorragia cerebrale».
Per Coppi una mazzata tremenda.
«Fausto è distrutto e pensa di rinunciare al Tour, anzi, di ritirarsi definitivamente dal ciclismo. Tuttavia, passati alcuni giorni, Fausto ci ripensa: il morale è a pezzi ed anche fisicamente Coppi non sta meglio. Vince una tappa, ma a Parigi per primo ci arriva Hugo Koblet, Coppi è soltanto decimo, a 46 minuti dal vincitore».
Eppure poi Fausto tornò Campionissimo.


«Sì, ma la morte di Serse lo segnò in maniera indelebile. Tra i due c’era amore e complicità. Serse allegro, divertente, chiacchierone come pochi. Fausto l’esatto contrario. “Era l’altra parte di me”, mi ripeteva spesso. Tornò il vero Coppi, ma solo dopo quasi due anni».

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